Con la maschera si può dire: la vita è una rappresentazione teatrale

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI “CARLO BO” URBINO – Laurea specialistica in Editoria Media Giornalismo – Corso di Tecniche di relazione – Prof. Giuseppe Ragnetti

“Con la maschera si può dire: la vita è una rappresentazione teatrale”

a cura di Marco Luchini

L’idea secondo cui la vita sociale può essere intesa nei termini di una rappresentazione teatrale non è affatto nuova. Già Shakespeare in A piacer vostro aveva fatto dire a uno dei suoi personaggi: “Tutto il mondo è un teatro e tutti gli uomini e le donne non sono che attori.

Essi hanno le loro uscite e le loro entrate. Una stessa persona nella vita rappresenta diverse parti”. Affermazione questa, sicuramente condivisa da Luigi Pirandello, che di maschere se ne intendeva, dato che nella sua poetica l’uomo non ha una personalità, ma molteplici e i suoi personaggi possono essere contemporaneamente Uno, nessuno e centomila.

La “metafora drammaturgica” di Goffman

Chi più di altri è però riuscito a fornire una panoramica esaustiva ed assolutamente originale circa il tema della maschera è sicuramente Erving Goffman, nell’opera del 1956 La vita quotidiana come rappresentazione, dove viene sostenuto il punto di vista della “metafora drammaturgica”.Goffman propone numerosi spunti di riflessione sui parallelismi che legano la vita quotidiana, in particolare le interazioni faccia-a-faccia, all’ambito delle rappresentazioni teatrali.

Partendo dal presupposto di considerare la rappresentazione teatrale come un processo informativo, nel senso di un “dare forma” a qualcosa da parte di qualcuno (attori da palcoscenico) verso qualcun altro (pubblico), si possono fare tutta una serie di considerazioni. Innanzitutto, rispetto all’interazione diretta, il teatro pare essere, paradossalmente, esente da simulazioni volte ad ingannare. Questo perché il teatro gode di un particolare ancoraggio al principio di realtà, che è una differenza a livello di “frame” con le interazioni sociali quotidiane.

Il concetto di “frame” è la nozione cardine su cui poggia la teoria di Goffman. Con il termine l’autore intende designare la “cornice” entro la quale gli individui collocano le situazioni che li vedono protagonisti, di volta in volta affidandosi a schemi interpretativi differenti e collegati al mondo dell’esperienza reale da un margine variabile a seconda dei casi. In poche parole, si tratta del contesto, ossia dello sfondo su cui si collocano le situazioni, che diventa frame nel momento in cui prevale su tutti gli altri.

L’introduzione del “frame” è funzionale per la comprensione del fatto che nel momento in cui il pubblico degli spettatori entra a teatro e prende posto in platea, è comunque in grado di attuare un processo che inscrive tutto quanto quello che sta per accadere sul palcoscenico all’interno di una specifica “cornice” che sarà quella teatrale. Qualsiasi altra cornice verrà perciò esclusa. Saranno gli applausi finali, seguiti dalla chiamata sulla ribalta, a chiarire definitivamente che la rappresentazione teatrale è finita e che tutto ciò che accadrà da quel momento in poi dovrà essere contestualizzato nel frame dell’interazione sociale quotidiana (a sua volta suddividibile in frame secondari).

La differenza maggiore che intercorre fra le cornici interpretative dell’interazione sociale quotidiana e quelle attivate quando si assiste a una rappresentazione teatrale risiede anche nel fatto che quanto avviene a teatro è il risultato di una pianificazione studiata e fissata per iscritto su un copione appositamente creato. Al contrario, nell’ambito delle relazioni umane tipiche della quotidianità difficilmente si ha un tale livello di pianificazione, se non in minima misura.

Volendo riprendere i termini impiegati nell’ambito della teoria fattorelliana, anche nel caso del teatro si potrebbe parlare di manipolazione che ancora una volta, come abbiamo visto, non assume i caratteri della falsificazione, ma piuttosto della “fabbricazione benigna” proprio perché sostenuta volontariamente dal pubblico che vi assiste. Oggetti, scene ed interazioni rappresentate sul palcoscenico sono delle imitazioni di quanto avviene nella vita umana, o se vogliamo, sono la forma data a ciò di cui narra la rappresentazione: il pubblico ne è consapevole, in quanto capace d’inscrivere il tutto nella cornice teatrale.

In nessun momento il pubblico è convinto che quella sul palcoscenico sia la vita vera. In altre parole, assistere a una rappresentazione teatrale significa accettare d’iscrivere il flusso degli eventi in una specifica cornice, il cui punto cardine risiede nel fatto che attori, regista, drammaturgo e addetti ai lavori dispongono del medesimo bagaglio informativo di conoscenze riguardo a ciò che si apprestano a portare in scena. Quanto accadrà sul palcoscenico è predeterminato e conosciuto da tutti coloro che hanno partecipato all’allestimento dello spettacolo stesso. È proprio questo ciò che caratterizza il diverso tipo di ancoraggio alla realtà della rappresentazione teatrale.

Vita e dramma sono comunque legati. Ciò che va rivisto è il loro rapporto. Nel pensiero comune è la vita che precede il dramma. Goffman ritiene invece che è la rappresentazione teatrale ad essere presa a modello nel corso delle interazioni quotidiane.

Quando l’individuo interagisce con altri soggetti, esso si pone nei loro confronti come se fosse un attore su un palcoscenico: racconta ciò che gli è successo per stimolare risposte e coinvolgimento in chi ascolta, interpretando di volta in volta, ruoli differenti. Lo scopo di chi parla è dunque ottenere l’adesione ai fatti che racconta da parte di chi ascolta. In realtà, non è la sola finalità strumentale, ossia il raggiungimento di un determinato fine, a muovere il soggetto verso gli altri, c’è infatti da considerare anche il condizionamento di come si vuole apparire. Quando un individuo è in presenza di altri ha molte ragioni per cercare di controllare le impressioni che essi ricevono dalla situazione.

C’è una differenza fondamentale fra vita e dramma: la conversazione quotidiana (ma, più in generale, la vita nel “mondo reale”) non è finzione, il che implica un diverso grado di coinvolgimento e di attenzione ai rischi e alle incongruenze che di volta in volta presenta, non potendo ricorrere, come invece accade in teatro, a un copione già scritto. La molteplicità del “self” e la varietà dei gruppi sociali possono aiutare l’individuo a superare le piccole difficoltà insite nell’interazione quotidiana.

La molteplicità del “self”

Quando si parla di molteplicità del “self” ci si riferisce alla multivalenza degli individui, ossia alla loro capacità di scindersi in sottoentità distinte, ognuna delle quali dotata di specifici connettivi e apposite convenzioni, che rendano l’individuo stesso capace di muoversi nell’ambito di contesti comunicativi differenti (famiglia, amici, scuola, lavoro e così via).

Il concetto di molteplicità del “self” si pone all’incrocio delle relazioni che intercorrono tra ruoli, persone, competenze comunicative e contesto. Si prenda l’esempio di un incontro di lavoro: se si ragionasse nei soli termini della libertà individuale, ognuno dei partecipanti potrebbe, apparentemente, esprimersi liberamente. Ma dato che, come detto, l’interazione quotidiana segue il teatro, la situazione in questione richiede uno sviluppo parzialmente previsto e prevedibile. Alcuni tratti comunicativi, cosiddetti situazionali, sono richiesti dal contesto, dal motivo di lavoro che obbliga le persone presenti, attraverso leggi sociali che si presume siano, almeno superficialmente, conosciute dai partecipanti, ad attenersi a norme e consuetudini per partecipare alla riunione medesima.

Queste leggi sociali, che vanno dai registri linguistici usati alle buone maniere, dal vestiario alle norme comunicative gestuali, fino alle espressioni del volto da evitare (ad esempio l’occhiolino al direttore generale non sarebbe apprezzato probabilmente neanche tra amici), generano, come restrizioni strutturate all’agire individuale, in un cervello socialmente adulto ed allenato a simili situazioni, uno script, una struttura in cui tutto è libero, ma rigidamente inquadrato all’interno di un processo comunicativo rigoroso, che prevede alternative e non improvvisazioni, parole adatte e non in libertà.

La medesima funzione può essere chiaramente riconosciuta al copione nel caso della rappresentazione teatrale, pur non trattandosi propriamente della stessa cosa.

Ciò dovrebbe far comprendere come le realtà quotidiane degli individui siano create dall’intricato sistema di regole fisiche, biologiche, psicologiche e sociali, e dal modo in cui i soggetti riescono a comunicare contestualmente in modo appropriato, adeguato a come gli altri partecipanti all’interazione si attendono.

Quello che viene messo in pratica è sia un sapere sociale relativo alle regole conosciute, sia un sapere comunicativo che permette di adattare tutto il nostro repertorio, lo script, fatto di gesti, parole, espressioni, movimenti, alla gamma di attese psicosociali oltre che tecniche che il pubblico, cioè gli altri partecipanti all’interazione in quel momento, desidera percepire nella situazione considerata. Cerimoniale, rituale, lavorativa, di svago o casuale che sia.

Gruppi di “performance” e gruppi di “audience”

È assai improbabile che una rappresentazione teatrale coinvolga solamente due individui (un attore e uno spettatore). Probabilmente, partendo da questo tipo di osservazione, Goffman giunge a pensare la vita sociale in termini di gruppi sociali, distinguendoli in due grandi categorie: i gruppi di “performance” e i gruppi di “audience”. I primi sono assimilabili alla compagnia teatrale, mentre i secondi rappresentano il pubblico.

L’esempio citato da Goffman, quello dei camerieri di un hotel delle isole Shetland (luogo in cui ha svolto la sua ricerca), chiarisce questo aspetto centrale della sua teoria. Il gruppo di performance dei camerieri, di fronte al proprio pubblico, ossia i clienti del ristorante dell’albergo, inscena una rappresentazione, mostrandosi deferente, rispettoso, discreto, e così via. Questo accade in uno spazio di “palcoscenico” (sala da pranzo), dove il pubblico è presente. Nello spazio di “retroscena” (cucina), nascosto al pubblico, i camerieri hanno un comportamento del tutto diverso, molto più informale e irrispettoso.

La vita sociale si divide in spazi di palcoscenico e di retroscena, cioè in spazi privati, in cui gli individui non “recitano”, e spazi pubblici in cui inscenano invece una precisa rappresentazione. Naturalmente, il comportamento nel retroscena contraddice il comportamento pubblico: una persona insicura, ad esempio, può assumere in pubblico un atteggiamento spavaldo, e mostrarsi invece vulnerabile nel retroscena (ad esempio in famiglia). La vita sociale si fonda dunque sulla demarcazione dei confini tra palcoscenico e retroscena. Questo significa che il gruppo di “audience” non deve e non può avere accesso alle situazioni di retroscena che contraddicono il comportamento pubblico del gruppo di “performance”.

Prima di continuare il discorso sui gruppi è doveroso fare un’osservazione, sollecitata dallo stesso esempio di Goffman, circa la minore aderenza dell’interazione quotidiana al principio di realtà rispetto al teatro. Infatti, mentre nella rappresentazione teatrale l’evidente distinzione tra pubblico e attori (una convenzione rafforzata anche da una serie di segnali fisici, quali la distanza tra platea e palcoscenico, l’apertura e la chiusura del sipario, lo spegnimento delle luci e così via), permette d’incorniciare immediatamente la situazione nel “frame” teatrale, nell’interazione quotidiana, nello specifico quella del ristorante, la mancanza di convenzioni e segnali forti rende più complessa l’operazione di “framing”. Solo attraverso il ricorso alla “metafora drammaturgica” è possibile semplificare parzialmente l’operazione di ancoraggio alla realtà.

Collante interno ai due gruppi individuati da Goffman è la condivisione degli spazi di retroscena, ossia dei luoghi in cui vengono preparate le rappresentazioni pubbliche. Condividere il retroscena, però, significa soprattutto conoscere i “segreti distruttivi” del gruppo, cioè quei segreti che, portati all’esterno, renderebbero la rappresentazione poco credibile. Tornando perciò all’esempio dei camerieri, secondo quanto appena detto, appartengono al gruppo tutti coloro che sanno quello che i camerieri fanno nel retroscena della cucina. Se un cameriere si mettesse a raccontare al pubblico dei clienti i segreti del gruppo – il modo in cui preparano le portate, il modo in cui mangiano o in cui deridono i clienti – questo verrebbe distrutto, perché la sua rappresentazione apparirebbe come una falsificazione poco credibile.

I segreti del gruppo devono quindi rimanere al suo interno e per questo stesso motivo, il gruppo deve comprendere, per definizione, tutte le persone che sono a conoscenza di questi segreti. Per quanto ascrivibili a due sole categorie, il numero dei gruppi a cui un individuo può appartenere è pressoché illimitato (famiglia, gruppo d’amici, categoria professionale, associazione, circolo informale e così via). Ciò significa che l’individuo, a seconda delle situazioni, può appartenere, sia a gruppi di performance che a gruppi d’audience, può essere cioè sia promotore che recettore d’informazione, nel complesso reticolato del tessuto sociale. L’informazione finisce per configurarsi come una risorsa strategica e come criterio di differenziazione.

Oltre il senso del luogo

L’informazione a cui si fa qui riferimento è intesa nei termini di “informazione sociale”, ossia tutto ciò che gli individui sono in grado di conoscere sul comportamento e sulle azioni proprie e degli altri, attraverso l’apprendimento dagli atti comunicativi. È un tipo d’informazione che arriva in molti modi (parole, gesti, abbigliamento, ritmi di lavoro) e che è profondamente legata al comportamento sociale. Perciò anche lo scambio sociale più banale può essere considerato un sistema informativo, dal momento in cui si tratta di un modello di accesso alle informazioni sociali, un modello di accesso al comportamento di altre persone.

Partendo da questo assunto è possibile rintracciare il continuum, piuttosto che la dicotomia, che esiste tra l’interazione faccia-a-faccia e le interazioni mediate. Di conseguenza, saranno molto più numerose le analogie che le non differenze fra il flusso informativo tramite i media ed il flusso informativo negli ambienti fisici. Infatti, diretti o mediati che siano, i modelli di flusso informativo contribuiscono a definire la situazione ed i concetti di stile e di azione appropriati. Automaticamente, questo non significa che l’introduzione e la diffusione di nuovi mezzi di comunicazione non produca nessun tipo di cambiamento, anzi; ogni volta che un nuovo mezzo di comunicazione ha fatto la sua comparsa, è cominciata ad emergere tutta una gamma di nuove situazioni e di nuovi comportamenti sociali.

Di questo avviso è il sociologo americano Joshua Meyrowitz, autore dell’ultima grande teoria mediologica sulla televisione. Partendo dal superamento della teoria di Goffman, Meyrowitz sostiene che la televisione ha completamente rimosso le barriere tra palcoscenico e retroscena, rendendo visibili tutti gli anfratti più nascosti della società.

Oggi, attraverso la televisione (per non parlare della rete), è possibile conoscere il retroscena dei gruppi a cui non si appartiene: ad esempio, non è più necessario essere un medico per conoscere i segreti distruttivi della categoria dei medici, perché questi vengono mostrati a tutti dalla televisione.

Si può concordare o meno con il sociologo americano quando afferma che non esiste più identità tra luogo e informazione, come quando le notizie di retroscena circolavano, appunto, solo nel retroscena, perché la televisione ha illuminato (o eliminato) tutti i retroscena. È chiaro però che, non riconoscendo il carattere di mascheramento delle interazioni, di qualunque natura esse siano, è come se non si riconoscesse il carattere opinante dei soggetti coinvolti negli scambi informativi. Forse sarebbe più giusto ed opportuno riconoscere che la dinamica sociale dipende sempre più dal modo in cui vengono distribuite le risorse strategiche dell’informazione.

Conclusioni

Affrontare le interazioni ordinarie in termini di schemi interpretativi consente agli individui di connotarle come processi di framing, di cui si serviranno per incasellare e comprendere la realtà che li circonda. Le narrazioni di fatti si configurano come modelli di ancoraggio alla realtà che, con il tempo, si cristallizzano, sedimentandosi fra le risorse cognitive e culturali condivise dalle comunità sociali. In particolare, questo è ciò che accade quando oggetto d’interazione sono i fatti d’opinione proposti dai media. La narrazione consente di dare una risposta a due esigenze fondamentali che l’uomo manifesta durante le interazioni: da una parte serve a dare ordine e coerenza con i quali affrontiamo meglio il flusso di eventi che ci circonda; dall’altra, presentarsi come narratore ad altri soggetti, consente all’individuo di essere accettato con credibilità, simpatia, coinvolgimento da chi ascolta. Ancora una volta dunque, si manifesta l’inevitabile sovrapposizione tra vita e teatro, dato che la forma narrativa è quella prediletta anche dalle rappresentazioni teatrali. Configurare l’esistenza alla stregua del dramma teatrale e quindi, di conseguenza, operare un mascheramento delle informazioni sociali, consente di facilitare le procedure di ancoraggio alla realtà di chi ascolta. Questo perché, evidentemente, dato che la realtà non può essere predeterminata, risulta essere troppo complessa da comprendere così com’è. In fondo, è questo ciò che chiediamo quando ci ritroviamo nel ruolo di pubblico, gruppo di “audience”: sia che si tratti di una narrazione ordinaria, sia che si tratti di una narrazione mediata, colui che si fa promotore dell’informazione deve intervenire con una qualche forma di manipolazione.

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