“Un ponte da ricostruire”

Gli ultimi due decenni, sono stati culturalmente e sociologicamente caratterizzati da una scuola di pensiero, da cui mi sento di dissentire fermamente, che ha teso a svilire progressivamente, fino al completo annullamento, i processi di trasferimento generazionale del sapere pratico e dell’esperienza di vita vissuta, non solo in senso professionale, che tradizionalmente ha agito come consolidamento della “conoscenza” nella nostra società sin dai tempi delle corporazioni romane ed ancor prima di queste attraverso ciò che è comunemente individuata come la “cultura orale” di un popolo.

Illustri professori universitari, manager di grandi aziende pubbliche e private, politici affermati, hanno ceduto acriticamente e colpevolmente all’imperativo categorico: le soluzioni ai problemi economici e produttivi del paese sono da ricercarsi nel “nuovo che avanza” mentre gli “altri” sono inevitabilmente da alienarsi in quanto cristallizzati nelle loro convinzioni o peggio, arroccati nella difesa del loro status quo.

Abbiamo assistito quindi, in questo periodo, alla mattanza di grandi professionalità giunte al più alto grado di competenza nei vari settori della cultura, delle arti e dei mestieri, condannandoli anticipatamente all’oblio, proprio nel momento in cui avrebbero potuto trasferire alle nuove leve il massimo dell’esperienza e della conoscenza acquisita.

Non a caso Pierluigi Celli, già Direttore Generale della Rai Radiotelevisione italiana, ha confessato in un suo recente libro di essersi profondamente pentito per aver avviato, nel periodo della sua disastrosa gestione aziendale, circa 2000 dipendenti della Rai verso il prepensionamento senza tener conto minimamente della drammatica perdita di Know how che avrebbe subito in un colpo solo il servizio pubblico radiotelevisivo.

In fondo, per accorgersi del guasto sociale che si andava via via delineando, sarebbe bastata una semplice “analisi longitudinale” dello sviluppo culturale e sociale del nostro popolo, poiché ciò che ancora ci rimane d’invidiato nel mondo, inteso quale frutto delle abilità produttive ed ideative italiane, proviene dal lento processo di sedimentazione della conoscenza operata progressivamente attraverso gli affiancamenti tra il raccoglitore-coltivatore e la sua prole, tra il mastro e l’apprendista nelle botteghe artigiane dell’antica Roma, tra maestro e discepolo nelle officine d’arte del Rinascimento, tra i grandi luminari e i loro discepoli negli studi professionali e nei laboratori ottocenteschi, tra capi officina e gli operai nelle grandi fabbriche della recente industrializzazione.

Il Mentore non esiste più, è obsoleto; al suo posto c’e’ la rete e le sue pronte risposte, adeguate ai tempi e aderenti al progetto di una “società fast”, che non ha tempo per capire e per imparare, un mondo del lavoro dove “l’apprendistato” è solo un modo contrattuale per pagare meno chi in ogni caso non sarà formato.

Ritengo che sia tempo di invertire la marcia, che si debba lavorare tutti per abbattere quel diaframma sociale che oggi pregiudizialmente allontana le generazioni e ricostruire il ponte di collegamento tra chi sa e chi vuole sapere, che si debba intercettare il grande flusso d’energia dei giovani per convogliarlo verso la pazienza, la consapevolezza che tutto e subito illude ma non costruisce.

Roma 22 aprile 2008

dott. Marco Cuppoletti

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