Teatro e Vita – da semplici spettatori a soggetti di uno spettacolo

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI “CARLO BO” URBINO – Laurea specialistica in Editoria Media Giornalismo – Esame di TECNICHE DI RELAZIONE – Prof. Giuseppe Ragnetti

“Teatro e Vita – da semplici spettatori a soggetti di uno spettacolo”

a cura di Cora Spalvieri

“Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! e come possiamo intenderci, signore, se nelle parole che io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo come egli l’ha dentro? Crediamo d’intenderci, non ci intendiamo mai!” (Pirandello L., Sei personaggi in cerca di autore)

Vita nel teatro. Persone che con le loro capacità ci affascinano recitando una parte. Ci mostrano una realtà che sappiamo non essere realtà, ma pura finzione. Una rappresentazione su un palcoscenico fatta da attori con in mano un copione. Battute imparate a memoria, recitate più o meno bene dinanzi a noi,  gente che spesso per loro non ha nemmeno un volto né identità. Ma deve essere per forza così? 

Teatro nella vita. Noi uomini che ogni giorno indossiamo una maschera e recitiamo una parte diversa per gli altri, il nostro pubblico, che a sua volta recita una parte diversa per noi, il loro pubblico. Stabiliamo relazioni sulla base di queste finzioni e inganniamo il nostro pubblico mostrando una realtà che è pura falsità. 

IL PUBBLICO PARTECIPANTE

Teatro e vita,  palcoscenico e platea, attori e pubblico. Binomi indissolubili all’interno di questo mondo che è la finzione teatrale. Da una parte protagonisti che lanciano dei messaggi, dall’altra uomini che ascoltano delle storie. Tra queste due entità la quarta parete.

La quarta parete fa parte della sospensione del dubbio, cioè nella volontà, da parte del lettore o dello spettatore, di sospendere le proprie facoltà critiche allo scopo di ignorare le incongruenze secondarie e godere di un’opera di fantasia. È quella parete immaginaria, inventata dal teatro naturalista, che separa gli attori dal pubblico, costretto quasi a “spiare” quanto avviene in scena. Il pubblico, in questa ottica, accetta implicitamente la quarta parete senza tenerla direttamente in considerazione, potendo così godere della finzione della rappresentazione come se stesse osservando eventi reali. Insomma questa parete, anche se immaginaria, separa attori e uditori, lo spettacolo dagli spettatori.

Ma nessuno dovrebbe essere marchiato del ruolo di protagonista attivo, e nessun altro di quello di recettore passivo. I ruoli si scambiano, si interagisce. Solo così si stimola il proprio pubblico ad ascoltare. 

Pirandello parla pertanto di infrangere la quarta parete, abbandonare la convenzione di separatezza  per il coinvolgimento fisico o emozionale del pubblico. Se tutto il mondo infatti è un enorme teatro non ha senso isolare il palcoscenico dal resto del teatro e della platea. Quest’ultima non deve essere più passiva,  poiché rispecchia la propria vita in quella rappresentata dagli attori sulla scena. Il pubblico viene così coinvolto non solo emotivamente, ma viene sollecitato anche a fornire risposte utili a completare o integrare il dramma. Ciascuno spettatore viene invitato a risolvere da solo i problemi lasciati insoluti dall’autore e dalla rappresentazione che di fatto diventa mille, diecimila, centomila quanti sono i fruitori.

Accade quindi che il palcoscenico pirandelliano diventi arena di scontro fra diverse realtà, tutte fortemente fondate e credibili. Il personaggio di Pirandello, diversamente da quello tradizionale che chiede allo spettatore unicamente di identificarsi in lui, apre un continuo e  incessante dibattito con il pubblico, stimolandolo ad una riflessione critica, ad un consenso e a volte dissenso sulle tesi che si dibattono attraverso l’azione scenica.

Lo spettatore è chiamato a “partecipare” in modo nuovo, a “entrare in scena” anche lui.

Esempio tipico è “Ciascuno a suo modo”, opera dello stesso Pirandello, dove si incastrano tre diversi piani prospettici: quello della vita reale, quello della rappresentazione scenica, e quello degli spettatori. 

Questa scelta di Pirandello significa intenzione di abolire la separazione tra arte (teatro) e vita (pubblico) e di mescolarle continuamente.

È vero che l’immaginaria linea di separazione tra attore e spettatore permette al pubblico di inserire ciò che vede nella cornice interpretativa della finzione, ossia della narrazione di eventi immaginari, ma è pur vero che l’attore non ha a che fare con un pubblico immobile e senza pensieri, lì seduto a recepire ogni messaggio già modellato e preparato ad hoc per lui, ma ha dinanzi un pubblico con un’anima e con una visione del mondo, un pubblico capace di interpretare la realtà secondo una sua propria visione.

Ecco allora un teatro che accoglie un continuo dibattito di idee, che abolisce il confine tra scena e platea, un teatro in cui lo spettatore è al centro, mentre lo spettacolo lo circonda.

È questo un teatro dove viene esorcizzata la passività del pubblico, cosicché lo spettatore, non più chiamato a ricevere un messaggio preconfezionato, diventi soggetto attivo inserito in un processo di creazione collettivo. 

Teatro dunque visto come evento e non come riproduzione di eventi; un avvenimento vissuto realmente da una collettività, attraverso una partecipazione tanto profonda all’evento teatrale da divenire vera e propria esperienza reale, quasi “una rappresentazione che si nega come rappresentazione, un teatro dove tutti sono attori”.

Partendo da queste considerazioni il teatro non può continuare ad essere visto come un mero contenitore culturale, il teatro è vita, è pubblico. Attore e spettatore devono essere legati da una particolare relazione, simultanea e diretta. Senza pubblico non c’è teatro.

Per troppo tempo il pubblico è stato ignorato, e ancora oggi spesso è considerato come uno spettatore passivo, senza pensieri e capace solo di assistere ad uno spettacolo. Non siamo ancora fuori dal “teatro della quarta parete”, ma bisogna cercare di sfondare questo muro. Perché seduti in platea ci sono pensieri, idee e opinioni, soggetti recettori di messaggi che vogliono potersi esprimere. 

LA VITA E’ UNA CONTINUA RECITA

L’idea secondo cui la vita sociale può essere intesa nei termini di una rappresentazione teatrale non è affatto nuova. Erving Goffman, nell’opera del 1956 “La vita quotidiana come rappresentazione”, sostiene il punto di vista della “metafora drammaturgica” proponendo numerosi spunti di riflessione sui parallelismi che legano la vita quotidiana, in particolare le interazioni faccia-a-faccia, all’ambito delle rappresentazioni teatrali.

Partendo dal presupposto di considerare la rappresentazione teatrale come un processo informativo, nel senso di un “dare forma” a qualcosa da parte di qualcuno (attori da palcoscenico) verso qualcun altro (pubblico), si possono fare tutta una serie di considerazioni.

Innanzitutto, rispetto all’interazione diretta, il teatro pare essere, paradossalmente, esente da simulazioni volte ad ingannare. Questo perché il teatro gode di un particolare ancoraggio al principio di realtà, che è una differenza a livello di “frame” con le interazioni sociali quotidiane. L’introduzione del “frame” è funzionale per la comprensione del fatto che nel momento in cui il pubblico degli spettatori entra a teatro e prende posto in platea, è comunque in grado di attuare un processo che inscrive tutto quanto quello che sta per accadere sul palcoscenico all’interno di una specifica “cornice” che sarà quella teatrale. Qualsiasi altra cornice verrà perciò esclusa. Saranno gli applausi finali, seguiti dalla chiamata sulla ribalta, a chiarire definitivamente che la rappresentazione teatrale è finita e che tutto ciò che accadrà da quel momento in poi dovrà essere contestualizzato nel frame dell’interazione sociale quotidiana.

Nell’impianto teorico di Goffman riguardo la vita comune, veniamo a trovare attori, palcoscenici, pubblico, quel che manca è un copione fisso. L’idea di Goffman  è che i gruppi sociali si dividano in due categorie: i gruppi di “performance” e i gruppi di “audience”. Infatti è  improbabile che una rappresentazione teatrale coinvolga solamente due individui (un attore e uno spettatore), pertanto, partendo da questo tipo di osservazione, Goffman giunge a pensare la vita in termini di gruppi sociali, distinguendoli appunto nelle categorie già citate: gruppi di “performance” e gruppi di “audience”. I primi sono assimilabili alla compagnia teatrale, mentre i secondi rappresentano il pubblico. La vita per Goffman è quindi una rappresentazione che i gruppi sociali mettono in scena di fronte ad altri gruppi. Per chiarire meglio il concetto Goffman cita l’esempio dei camerieri in un hotel delle isole Shetland (dove aveva svolto la sua ricerca).  Il  gruppo di performance dei camerieri, di fronte al proprio pubblico, i clienti del ristorante, inscena una rappresentazione, mostrandosi deferente, rispettoso, discreto, e così via. Questo accade in uno spazio di palcoscenico, la sala da pranzo, dove il pubblico è presente. Nello spazio di retroscena invece, nascosto al pubblico, i camerieri hanno un comportamento del tutto diverso, molto più informale e irrispettoso. La vita sociale, quindi, si divide in spazi di palcoscenico e di retroscena, cioè in spazi privati, in cui gli individui non “recitano”, e spazi pubblici in cui inscenano invece una precisa rappresentazione.

Prima di continuare il discorso sui gruppi è doveroso fare un’osservazione, sollecitata dallo stesso esempio di Goffman, circa la minore aderenza dell’interazione quotidiana al principio di realtà rispetto al teatro. Infatti, mentre nella rappresentazione teatrale l’evidente distinzione tra pubblico e attori, permette d’incorniciare immediatamente la situazione nel “frame” teatrale, nell’interazione quotidiana, nello specifico quella del ristorante, la mancanza di convenzioni e segnali forti rende più complessa l’operazione di “framing”.

Torniamo ai gruppi. Il loro collante interno è la condivisione degli spazi di retroscena, ossia dei luoghi in cui vengono preparate le rappresentazioni pubbliche. Condividere il retroscena, però, significa soprattutto conoscere i “segreti distruttivi” del gruppo, cioè quei segreti che, portati all’esterno, renderebbero la rappresentazione poco credibile. Tornando perciò all’esempio dei camerieri, secondo quanto appena detto, appartengono al gruppo tutti coloro che sanno quello che i camerieri fanno nel retroscena della cucina. Se un cameriere si mettesse a raccontare al pubblico dei clienti i segreti del gruppo, quest’ultimo verrebbe distrutto, perché la sua rappresentazione apparirebbe come una falsificazione poco credibile.I segreti del gruppo devono quindi rimanere al suo interno e per questo stesso motivo, il gruppo deve comprendere, per definizione, tutte le persone che sono a conoscenza di questi segreti. 

Per quanto ascrivibili a due sole categorie, il numero dei gruppi a cui un individuo può appartenere è pressoché illimitato (famiglia, gruppo d’amici, categoria professionale, associazione, circolo informale e così via). Ciò significa che l’individuo, a seconda delle situazioni, può appartenere, sia a gruppi di performance che a gruppi d’audience, può essere cioè sia promotore che recettore d’informazione, nel complesso reticolato del tessuto sociale. L’informazione finisce per configurarsi come una risorsa strategica e come criterio di differenziazione. 

Da quanto visto Goffman sembra prendere in considerazione tutti gli elementi della recita: un attore (un uomo comune) svolge la sua parte in un’ambientazione teatrale (qualsiasi luogo nel quale ha bisogno di inscenare una nuova realtà, o identità) che si compone di un palcoscenico e di un retroscena. In questa interazione i vari elementi del gioco s’influenzano e sostengono reciprocamente, infatti l’attore è osservato da un pubblico, ma al contempo egli è un pubblico per la “parte recitata” dai suoi stessi spettatori. Sì, perché nelle interazioni, o rappresentazioni che dir si voglia, i partecipanti possono essere simultaneamente attori e pubblico. Gli attori di solito tentano di far prevalere quelle immagini di loro stessi che li pongono favorevolmente in luce, ed incoraggiano gli altri soggetti, in vario modo, ad accettare la loro definizione della situazione inscenata.

CONCLUSIONI

Dal teatro alle interazioni sociali, dal palcoscenico agli uomini, comunicare è mettere in relazione. 

E mettere in relazione vuol dire che vi sono due o più soggetti che tra di loro scambiano parole, idee, significati.

Come già visto la differenza maggiore che intercorre fra le cornici interpretative dell’interazione sociale quotidiana e quelle attivate quando si assiste a una rappresentazione teatrale risiede nel fatto che quanto avviene a teatro è il risultato di una pianificazione studiata e fissata per iscritto su un copione appositamente creato, è una falsificazione benigna della realtà, o meglio si parla di finzione. Al contrario, nell’ambito delle relazioni umane tipiche della quotidianità difficilmente si ha un tale livello di pianificazione, se non in minima misura, e non sempre siamo in grado di capire in quale frame interpretativo dobbiamo inserire ciò che viviamo, vediamo o ascoltiamo. 

Ma comunicare è essere attivi in questo processo di scambio continuo che è la vita, sia quella della finzione teatrale che quella nella vita reale. 

Gli interlocutori di una comunicazione hanno pari dignità.

È quello che Fattorello ci dice con la sua Teoria della tecnica sociale dell’informazione: il soggetto recettore del messaggio non deve più essere considerato mero soggetto passivo nei fenomeni  dell’informazione, ma soggetto che interagisce con tutti gli elementi del rapporto, al fine di migliorare sempre più le possibilità di dialogo tra promotore e recettore. 

Soggetto promotore e soggetto recettore sono quindi entrambi soggetti opinanti, soggetti che percepiscono il mondo in mille modi differenti  ed espongono agli altri la propria percezione e così: la percezione alimenta l’esperienza, l’esperienza condiziona la percezione.

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