“La Voce” di Montanelli: l’insuccesso della stampa ideologica

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI “CARLO BO” URBINO

Facoltà di SOCIOLOGIA – Corso di Laurea: Editoria Media Giornalismo

Esame di Tecniche di relazione

Prof. Giuseppe RAGNETTI

TEORIA DELLA TECNICA SOCIALE DELL’INFORMAZIONE

Luca Valente – Matricola 219901

Anno Accademico 2006/2007

“LA VOCE” DI MONTANELLI: L’INSUCCESSO DELLA STAMPA IDEOLOGICA

Noi volevamo fare, da uomini di destra, il quotidiano di una destra veramente liberale che si sente oltraggiata dall’abuso che ne fanno gli attuali contraffattori”: era l’aprile del 1995 e così scriveva Indro Montanelli nell’ultimo editoriale del quotidiano “La Voce”.

In queste poche righe emergono tutte le contraddizioni di uno dei fallimenti editoriali più eclatanti del secondo dopoguerra. L’insuccesso de La Voce, la creatura che Montanelli aveva così ardentemente desiderato, incorpora tutti gli elementi di quella che si è soliti chiamare “stampa ideologica”, ne racchiude in se la portata limitata, il carattere autoreferenziale e l’inevitabile caduta. Sulla base di queste prerogative ci si potrebbe spingere, in maniera forse un po’ troppo presuntuosa a rivalutare la figura di colui che è stato considerato il più grande giornalista del secondo dopoguerra.

Ovviamente appare inverosimile adeguarsi a tale considerazione. Se, come sembrerebbe, il giornalista mira ad ottenere una adesione d’opinione tempestiva e contingente da parte del suo lettore a quanto egli riferisce, affidandosi a “opinioni stereotipate” appare sorprendente come Montanelli non sia stato in grado di conservare una creazione del tutto personale e già prima di veder la luce brillava del prestigio dello “stregone”.

Indro Montanelli parla de La Voce già nel suo ultimo fondo scritto per il Giornale della famiglia Berlusconi, intitolato “Vent’anni dopo” ed apparso il 12 gennaio 1994. Lasciando il quotidiano da lui fondato non dice addio ai suoi lettori, il suo è un arrivederci a quanti vorranno seguirlo nella sua nuova avventura: : “A presto, cari lettori. Anche a costo di ridurlo per i primi numeri a poche pagine, riavrete il nostro e vostro giornale. Si chiamerà La Voce…”, in omaggio al  maestro Prezzolini, e la sua caratteristica principale sarà “…un assetto azionario che ne garantisca l’assoluta indipendenza”.

Già in queste poche parole si evince la spregiudicatezza e il coraggio che caratterizzeranno il suo giornale. Tenendo fede alla sua innata libertà fonda una public company nell’idea che un giornale non potrà essere veramente libero se legato più o meno direttamente ad un padrone.

Gli slogan che caratterizzeranno la promozione del quotidiano ruoteranno attorno al tema “La Voce: unico padrone il lettore”. Ma proprio tale professione di fede sarà una delle cause della fine del giornale. La libertà di stampa e la necessità di creare nell’editoria italiana una vera public company lontana da condizionamenti esterni non garantisce un netto posizionamento politico nel quadro generale dell’editoria italiana né per gli investitori né per i lettori. In questa situazione ovviamente risulta difficile ottenere la fiducia necessaria per nuovi finanziamenti. L’incapacità del quotidiano di trovare una propria posizione politica, l’”opposizione organica” al limite della fronda è una delle cause principali del suo fallimento.

Dopo una prima settimana di vendite record il nuovo quotidiano uscito il 22 marzo 1994 inizierà un fase discendente fino alla chiusura il 12 aprile dell’anno dopo. L’incapacità maggiore è stata dunque la presunzione di rivolgersi ad un pubblico non delineato. “La Voce” appare un organo d’informazione svincolato da qualsiasi interpretazione, una sorta d’ibrido incapace di rivolgersi a destra o a sinistra. La destra ideale alla quale Indro aspira è una destra che in realtà non esiste. Nel processo d’informazione che intende creare non esiste soggetto recettore.

Il suo limite è tutto qui. Il quotidiano nonostante ogni sorta d’astrazione è un prodotto editoriale, e in quanto tale ha bisogno di un pubblico assiduo e fedele che lo acquisti. La convergenza delle interpretazioni, quella tra soggetto promotore e forma dell’oggetto e quella tra recettore e  forma trasmessa attraverso il giornale, non si realizza perché il quotidiano montanelliano appare slegato dalla quotidianità, completamente autoreferenziale. E’ questa gestione poco accorta, la difficoltà o forse la non volontà, di scavarsi una nicchia di lettori in un mercato sempre più competitivo che ne determineranno l’insuccesso.

Ripercorriamo le tappe fondamentali della vita del giornale.  La Voce esce nelle edicole il 22 marzo del 1994. E’ un giornale innovativo, alternativo. Attraverso una grafica accattivante vengono trattate poche notizie importanti da approfondire intensamente lasciando a quelle meno importanti uno spazio ridotto.

Forse proprio la caratteristica principale del giornale sta nel suo modo di trasmettere la notizia, che sfruttando le capacità comunicative della grafica non ha nulla da invidiare alla televisione. Si distingueva per le poche pagine pressoché prive di pubblicità, numerose rubriche, molti articoli d’opinione e dei fotomontaggi pubblicati in prima pagina.  Il 29 marzo “La Voce” vende ancora 331.892 copie: da questo momento in poi comincia però l’emorragia mai arrestata. Nonostante i primi tre mesi positivi si assiste nell’arco dell’anno ad un calo inarrestabile delle vendite che arrivano ad un minimo di 50mila copie. Forse non ci si aspettava un Montanelli così moderno.

Stranamente il giornalista italiano che più di tutti ha semplificato il suo linguaggio per rendere agevole la comunicazione con i lettori, suoi interlocutori privilegiati, ha ora complicato al massimo la sua posizione, alternativamente scagliando fulmini contro la destra e richiamando brani delle sue battaglie contro la sinistra. Continua a provare, ma non riesce a spiegare perché, pur continuando a definirsi uomo di destra, vota a sinistra anziché scendere in campo per cambiare dall’interno questa destra che non gli piace. Anche per questo a fine maggio “La Voce” ha già perso moltissimi lettori; la tiratura è ormai stata dimezzata: nonostante il trasferimento in via Dante dei più prestigiosi collaboratori de Il Giornale, molti affezionati montanelliani sono ritornati al quotidiano di Feltri.

La redazione conta ormai nelle sue fila firme di tutto rispetto e di gran nome in ogni campo: da Enzo Bearzot, mentore dell’Italia ai Mondiali dell’Ottantadue, a Leopoldo Elia, ex presidente della Corte Costituzionale; da Giuliano Amato, ex presidente del Consiglio, all’economista Mario Baldassarri. E questi sono soltanto i nuovi acquisti.

La squadra nasce già ricca, con l’arrivo da Il Giornale di Ricossa, Pampaloni, Marongiu, Gina Lagorio e Armaroli, per citarne alcuni. Niente di tutto questo si rivela utile per bloccare l’emorragia di copie vendute dopo la vittoria di Forza Italia alle elezioni, e seppure i redattori e gli amministratori, sulle ali dell’entusiasmo, non diano troppo peso a questi primi campanelli d’allarme, la situazione si fa problematica.

A dimostrazione di quanto la forza del quotidiano montanelliano derivi dal suo direttore, accade un fatto che rappresenterà una ferita insanabile. Montanelli partecipa il 13 settembre ad un dibattito sull’informazione organizzato a Modena alla Festa de l’Unità, e per lui è un trionfo: una moltitudine di simpatizzanti del Pds lo applaude entusiasta.

Le Reti Fininvest e Il Giornale non perdono l’occasione di attaccare Montanelli, novello comunista, e La Voce; ma il peggio è che i lettori sembrano credere alle accuse, e nel giro di pochi giorni quasi in diecimila abbandonano il quotidiano. Montanelli, a suo dire, è stato vittima della sua ingenuità: invitato a partecipare ad un dibattito con Walter Veltroni, Paolo Mieli, direttore del Corriere, e Ezio Mauro, direttore della Stampa, si trova invece di fronte Massimo D’Alema e una folla di uomini di sinistra che lo acclama come se fosse uno dei loro. Il direttore nega, polemizza, attacca la sinistra italiana, esprime le idee di sempre insieme con le recenti critiche alla destra al potere nella quale non si riconosce, ma i suoi commenti restano inascoltati, sommersi dagli applausi e dall’entusiasmo.

L’opinione pubblica italiana vede la superficie, gli applausi, le acclamazioni: non si preoccupa di quello che Indro Montanelli ha dichiarato, lo crede ormai schierato con la sinistra. Ed è così che viene avvalorato l’equivoco che l’accompagnerà fino alla fine, grazie soprattutto alle strumentalizzazioni che di questo episodio sono state fatte. Montanelli ribadisce più volte di essere un uomo di destra che non si riconosce nella destra al potere, ma ragionando a suo modo finisce per sconcertare i suoi lettori, che lo trovano contraddittorio.

Montanelli racconta che “La Voce” si è spenta per diversi e innumerevoli errori la cui responsabilità è distribuita fra molti; ma non si sottrae alle sue.

Sostiene che l’errore più importante sia stato di fare un passo troppo lungo rispetto alle possibilità che la Piemmei, la casa editrice del quotidiano, offriva, sottolineando anche, però, che i sostenitori della stessa hanno mantenuto ben poche delle promesse sbandierate alla vigilia.

Il 12 aprile 1995 esce l’ultimo numero de La Voce, un numero ricco e speciale oltre ogni aspettativa: in prima pagina spicca il fondo del direttore dall’esplicativo titolo “Uno straniero in Italia”, affiancato da un fotomontaggio nel quale egli appare imbavagliato in un deserto popolato di avvoltoi e sciacalli e sottotitolato appunto “Il giorno degli sciacalli”.

Nell’editoriale Montanelli racconta di cause “congiunturali” per la chiusura de La Voce, come l’aumento del prezzo della carta, il calo della pubblicità per la concorrenza della televisione, la corsa ai gadget e supplementi dei quotidiani nazionali forti. “Ma tutto secondario rispetto al difetto d’origine. Noi volevamo fare, da uomini di destra, il quotidiano di una destra veramente liberale, ancorata ai suoi storici valori: lo spirito di servizio (quello vero, taciuto e praticato), il senso dello Stato, il rigoroso codice di comportamento che furono appannaggio dei suoi rari campioni da Giolitti a Einaudi a De Gasperi…Questa destra fedele a se stessa in Italia c’è. Ma è un’élite troppo esigua per nutrire un quotidiano”.

Volendo la nostra analisi potrebbe terminare qui. Nelle parole dello stesso Montanelli appare evidente la sua ingenuità, forse dettata dall’ideologia, forse dalla volontà di cambiare gli italiani, forse dalla volontà di fare informazione non contingente. In interviste successive alla Stampa e al Corriere egli sfoga la sua tristezza nei confronti di una borghesia italiana che ha aiutato anziché contrastarla la fine di un quotidiano che ne sarebbe dovuto esser il miglior rappresentante.

La parte di questa borghesia non indirizzata sulla strada indicata dal padrone è a suo parere troppo esigua per la sopravvivenza di un quotidiano realmente indipendente. Ovviamente l’intento non è quello di sminuire la figura di uno degli uomini più importanti della cultura italiana, ma dimostrare come proprio uno dei giornalisti più affermati in Italia non abbia saputo tener presente alcune regole fondamentali dell’informazione.

E’ la sua cecità a destar sorpresa, una cecità non certo dettata dall’incapacità quanto dall’abbacinamento dell’ideologia, dell’intento educatore. Un giornale d’informazione che deve essere aperto ad un recettore generico non tratterà argomenti troppo speciali, né userà una terminologia troppo convenzionale. Le forme atte all’informazione pubblicistica devono essere fattori di conformità per tutti i componenti del gruppo cui si rivolgono.

Nello stabilire l’ampiezza delle notizie afferenti alla vita nazionale o internazionale il giudizio che ha il giornalista non discende dai valori universali ma da quelli pubblicistici che cioè egli ritiene più rispondenti ad una scala di valori dell’effetto. Sulla base di ciò volendo esemplificare la nostra analisi potremmo affermare che nell’ottica del quotidiano montanelliano emergono due errori fondamentali: la mancanza di un pubblico determinato al quale rivolgersi, la presunzione di poter educare facendo riaffiorare una destra ideale, ponendo le basi su valori fondamentali del liberalismo,”…lo spirito di servizio,il senso dello Stato,il rigoroso codice di comportamento…”.

In questo seconda finalità emerge il perché di un insuccesso che mai si sarebbe potuto prevedere. La missione educatrice, come la volontà di risvegliare valori fondamentali, non può essere della stampa la cui funzione precipua è quella dell’informazione contingente. La “funzione educatrice” è propria di un processo d’informazione non contingente così come “il cerchio di fatti transitori e di polemiche” è proprio della funzione giornalistica. E’ difficile associare l’uno con l’altro quanto più impensabile è affidare al secondo il compito del primo. La presunzione forse ingenua e accorata de La Voce è tutta qui, nella volontà di affidare al giornale, all’informazione pubblicistica una prerogativa che è tipica del libro o del maestro, confondere esigenze di tempestività ed opportunità contingente con un fenomeno basato sul processo razionale della logica.

Mentre l’informazione del contingente è fine a se stessa, mira alla formazione d’opinioni stereotipate in relazioni ad interessi contingenti, l’informazione non contingente costituisce la dinamica del processo di integrazione sociale,mira alla adozione di valori che sono in onore del gruppo sociale ed universalmente accettati.

Inoltre non bastando tali inadempienze d’ordine pratico, s’aggiunse la discrepanza tra obiettivi dichiarati, creare cioè una sorta di tribuna alla quale fossero ammesse tutte le opinioni sottoposte al controllo del lettore, e il marcato antiberlusconismo effettivo del quotidiano. Ovviamente il quotidiano nasce dal traumatico allontanamento di Montanelli da “il Giornale”, in seguito all’entrata in politica dell’editore Berlusconi.

Lo strappo che si viene a creare dunque non poteva non ripresentarsi nella struttura e nella posizione politica del nuovo giornale di Montanelli. La struttura organizzativa infatti puntava su un azionariato pubblico in grado di garantire al quotidiano una totale libertà. La public company, sebbene fosse un terreno inesplorato, era comunque un’idea attraente in quanto all’interno di un contesto dominato da editori “impuri” era l’unica possibilità per realizzare libera informazione, un’informazione senza bavaglio.

Nella nuova redazione Montanelli si sentirà libero, sia da condizionamenti esterni che da quelli interni. Questa innata indipendenza, supportata da una libertà tecnica lo porterà ad attaccare o elogiare alternativamente chiunque senza alcuna distinzione. Inutile negare che il suo bersaglio preferito resterà il suo ex-editore. L’astio nei confronti di Berlusconi si trasferì nel suo nuovo quotidiano, al punto che i suoi attacchi miravano a demolire l’intero schieramento di centro-destra finendo per allontanare dalla Voce tutti i lettori più tradizionalisti e reazionari.

Nonostante il direttore continuasse a prendere le distanze dalla nuova destra e a dichiarare l’impossibilità di una sua svolta a sinistra molti ormai lo consideravano un sostenitore di Occhetto. Secondo Marcello Staglieno, nel libro “Montanelli: 90 anni controcorrente” due sono i motivi del fallimento: il primo è l’assoluta mancanza di mezzi; quando Montanelli fondò Il Giornale, nel 1974, alle spalle aveva un colossale sponsor quale la Montedison di Eugenio Cefis. All’atto della fondazione de La Voce non ha alle spalle finanziatori dello stesso peso specifico.

Il secondo è scrivere da “oppositore organico” (ovvero senza appoggiare nessuno per partito preso, facendo la così detta “fronda”), ma guidare un giornale da opposizione frontale, totalmente antiberlusconiano; richiamandosi, peraltro, ad una destra ideale per sparare contro una destra reale e deludendo sia i vecchi lettori (“frondisti” incalliti) sia i nuovi (oppositori veri). Della stessa idea sono anche Mario Cervi, Gianni Locatelli, e Davide Blei.

L’antiberlusconismo acido e scontroso che ha dal principio caratterizzato La Voce è per loro a tratti anche comprensibile, data la fine travagliata del rapporto che legava il Cavaliere e il direttore, ma del tutto negativo in un’ottica di mercato. In questa ottica il giornale che nei fatti viene scritto per un pubblico che lo apprezzi,per esser venduto a sufficienza per coprire i costi non aveva un pubblico da soddisfare.

Per la sua impostazione, per l’aggressività congenita che lo caratterizzava si poneva in concorrenza con quotidiani di opposizione come la Repubblica mentre allo stesso tempo perdeva inevitabilmente i lettori più tradizionalisti e affezionati. Al tempo della Voce Montanelli non appariva più quello de il Giornale, in grado di incarnare i valori liberali.

Il conservatorismo illuminato che mai riconobbe nella nuova destra si leggeva nelle pagine de La Voce,un quotidiano che nella sua visione si rivolgeva proprio a quella borghesia che non ha mai amato,ben conscio che in Italia,salvo sporadici casi,non esiste borghesia,ma solo classe media, spesso mediocre.

Ora per quanto concerne la teoria della tecnica sociale appare evidente come nel corso della trattazione siano stati toccati, purtroppo in negativo, alcuni elementi peculiari della teoria di Francesco Fatterello.

La curiosità sta nel fatto che le mancanze di Montanelli ricadano su alcuni dei punti peculiari della teoria della tecnica sociale: l’impossibilità di confondere l’informazione contingente con quella non contingente, ed in particolar modo basare la prima su uno dei presupposti della seconda: i “valori condivisi” e non le “opinioni stereotipate”, la presunzione montanelliana di intendere il giornale come elemento d’educazione alla stregua de “Il popolo d’Italia” mazziniano.

Ciò che sorprende maggiormente è però la mancanza di sensibilità, come ho già detto, nel capire che il quotidiano è pur sempre un prodotto editoriale che ha bisogno di un pubblico al quale rivolgersi. Pavoneggiando magari la capacità di realizzare un giornale “aristocratico”, che ostentasse doti estetiche ed etiche alla stregua de Il Borghese di Longanesi, o le rivendicazioni culturali de “Il Mondo” di Pannunzio La Voce sembra evitare, addirittura bistrattare nel suo atteggiamento autoreferenziale, la figura del soggetto recettore della teoria fattorelliana.

Quel soggetto sociale che ha le stesse facoltà opinanti del giornalista-promotore, e che dovrebbe in questo avere lo stesso grado di socializzazione del secondo. Nello screditare tale mancata corrispondenza culturale (“volevamo fare il quotidiano di una destra veramente liberale”)  il rapporto d’informazione non avrebbe l’effetto voluto: il contenuto non potrebbe essere ricevuto o capito, oppure sarebbe capito male, con difficoltà e distonie rilevanti.

E’ quindi norma fondamentale per mettere in atto, con qualche risultato, un rapporto d’informazione, quella di essere edotti dei fattori di acculturazione del recettore. Solo  così il soggetto promotore potrà adeguarsi a lui. Adeguarsi, ma non rinunciare al suo scopo e a quella iniziativa sulla quale si era proposto di ottenere una conforme adesione di opinione.

Per Montanelli non sarà così. Appare sorprendente ma è la storia. «La Voce» chiude il 12 aprile 1995. Dopo i clamori dei primi mesi termina in sordina portando con se le amarezze del suo direttore.

S’intitola “Uno straniero in patria” l’ultimo editoriale del direttore.  Il titolone della prima pagina, quella dell’addio, suona così: “Il giorno degli sciacalli”. «Il mio viaggio finisce qui» dirà ai suoi redattori. Sempre controcorrente e fedele alle proprie convinzioni, fedele all’insegnamento per cui l’idea di uno vale più delle convinzioni della massa.

Di queste due esperienze, “Il Giornale” e “La Voce” dirà: «Sono state due battaglie e due sconfitte di cui vado fiero, ma che mi hanno lasciato addosso anche nel morale e nel fisico, troppe cicatrici».

Possiamo dire che, nell’annunciata sconfitta de “La Voce”, come uomo ebbe la sua vittoria, non come giornalista.