“Novella 2000”: un’informazione all’italiana

Facoltà di Sociologia – Corso di Laurea specialistica in Editoria, media e giornalismo – Tecniche Di Relazione, prof. Giuseppe Ragnetti

“Novella 2000”: un’informazione all’italiana

a cura di Orazio Martino

  • Introduzione
  • Profilo, curiosità ed orientamento della rivista
  • Opinioni su opinioni
  • Conclusioni

Introduzione

Viviamo in un Paese dove il gossip, la notizia facile, lo scoop, la comunicazione contingente, dominano le passioni di una miriade di esseri comunicanti, che a malapena riescono ricompattare i pezzi per un’efficace difesa. Si pensi alla generazione odierna di mamme casalinghe, la cui domenica è spesso incentrata sulle pulizie e sulla TV accesa 24 ore su 24: salotti, dibattiti, Giletti e l’informazione diventa scoop, la comunicazione sensazione. Si opta per una trasmissione nazional-popolare, che attira ed è convinta di nascondersi dietro la maschera di una cultura che non c’è.

Questioni che acchiappano, dibattiti che si infiammano, scenate programmate, liti e parolacce; la comunicazione è diretta, e data la superficialità, l’assorbimento immediato. Di certo non si mira a infrangere la muraglia del pudore, ma tutto appare confuso, ambiguo: pensate alle bravate di alcuni conduttori televisivi, in merito alle quali vengono immediatamente espresse scuse pubbliche. In Rai si tenta di comunicare tramite un’immagine sobria e classica (si veda la razionalità di un conduttore come Bruno Vespa), sulle reti Mediaset invece si punta più al lato giovanile, immediato e rischioso dei contenuti (trasmissioni quali Lucignolo meriterebbero il linciaggio mediatico). Ma se c’è un mezzo che più d’ogni altro continua a perpetrare la sua filosofia tutta scoop e spazzatura commestibile questo è Novella 2000, quanto di più obbiettivo si possa immaginare in un mezzo di comunicazione al giorno d’oggi.

Novella 2000 è la rivista più schierata e parziale d’Italia, con un’identità e target di ferro, l’obiettivo è uno solo: farsi i fatti degli altri, e cosa c’è di meglio sotto un sole estivo che spulciare nei fatti della gente altrui?

Mediatori infallibili, i paparazzi sono il motore della rivista, il male che Fabrizio Corona vorrebbe estirpare. Se nell’esempio televisivo le nostre casalinghe non hanno alcuna responsabilità (perché una volta accesa, è la “scatola” che decide per loro), con Novella 2000 il confine si fa più sottile: chi acquista la rivista lo fa perché intende ricevere quel particolare tipo di informazione detta in quel preciso modo. Novella non fallisce un colpo: contenuti futili, fotografia rizza capelli ed articoli fini a se stessi.

Profilo, curiosità ed orientamento della rivista

Gossip: “parlare ozioso, diceria insignificante o senza fondamento […], indifferentemente parlata o scritta, soprattutto a proposito di persone o di fatti concernenti la comunità”.

Oxford English Dictionary

In Italia, dove il calcio è lo sport più popolare, anche i suoi fautori sono considerati V.I.P. (very important person). Questa banda di milionari sulla cresta dell’onda non può sbagliare una mossa , che si tratti di questioni pubbliche o private. Alle loro spalle si muove una combriccola di fotografi d’assalto, pronti ad immortalarne qualsiasi passo falso, caduta di stile od infatuazione amorosa. Loro sono i paparazzi, e Novella 2000 la madre superiora.

Paparazzo è un termine coniato da Ennio Flaiano negli anni Cinquanta, la madre superiora esiste dal 1919, e questo è un dato di fatto impressionante. Da quell’anno, infatti, non smetterà mai di pubblicare i suoi articoli, incentrati sul pettegolezzo e roba simile, con un profilo culturale dichiaratamente basso.

Il fatto che esista da 90 anni dimostra come in Italia sia sempre attiva quell’oziosa frangia interessata più al gossip che alla cultura in generale. Novella 2000 vi sbatte in faccia le sue “notizie”. Contenuti spesso graffianti si abbinano impeccabilmente ad immagini che sfociano nel volgare, per non parlare dei titoli, autentici pugni nello stomaco per l’impatto sensazionalistico che possiedono. Nel corso degli anni, la rivista ha dovuto vedersela con una concorrenza agguerrita, in più c’erano le denunce dei diretti interessati (politici, attori, calciatori). Escludendo alcune cadute sporadiche, il riscontro in denaro non è cambiato, così come il suo accanito pubblico, fedele a masticar spazzatura piuttosto che orientarsi sulla lettura di un articolo critico firmato Aldo Grasso sul Corriere Della Sera.

Gente poco disposta trova in Novella 2000 panne effimero per i suoi denti, la rivista è chiarissima, obiettiva, conservatrice: tratta uguali tematiche da circa 90 anni. L’identità del pubblico è parecchio variegata, si va dalle studentesse che fanno economia alle nonne sessantenni poco propense ai film d’azione. A partire dal 2002, Novella 2000 ha subito un imperscrutabile lifting cartaceo, adeguandosi alle imminenti potenzialità offerte dal mezzo internet, approfittando quindi dell’enorme risonanza offerta. Nel 2008 la direzione viene affidata a Candida Morvillo, classe 1974.

La RCS mediagroup punta molto su questa trentenne napoletana, donna verace la Morvillo. Il primo numero della nuova gestione è incentrato sullo scoop d’altri tempi, destinato a stravolgere una volta per tutte i canoni del modo di fare gossip in Italia. In copertina campeggia un’immagine del ministro Gianfranco Fini beccato in intime effusioni con la sua compagna Elisabetta Tulliani. La notizia è presentata come l’anticamera della svolta di Novella: niente più overdose di veline e calciatori, bensì maggiore spazio a personaggi finora rimasti dell’ignoto, politici e imprenditori su tutti. Anche il gossip ha le sue strategie.

Lo stile della Morvillo coincide con il Dna di quella che dovrebbe essere una rivista di gossip: notizie senza mezzi termini, confessioni sparate in faccia come acqua bollente, domande e risposte senza filtraggio o censura. Si scava nei personaggi senza giri di parole, con trasposizioni semplici ma aggressive. Titoli quali “Ecco la compagna segreta di Carlo Conti, lui vuole un figlio da lei!” oppure “Clamoroso: nuovo incontro segreto tra Elisabetta Canalis ed il calciatore Drogba, a Los Angeles” accompagnati dalla foto di rito godono di un impatto sensazionalistico diretto e circonciso. “Carlo Conti, ah quello che presenta Miss Italia” potrebbe essere la reazione di un lettore qualsiasi.

Quello di Novella, invece, mai soddisfatto, va a cercare nell’articolo l’approfondimento gli cambierà la vita. Il potere del gossip è anche questo: qualcosa di sbagliato ed inspiegabile ma che arriva dritto al bersaglio. Ci sono anche casi di VIP che vengono pagati fior di quattrini per architettare uno scoop con tanto di copione in mano. La notizia può essere vera o falsa, l’importante è che abbia effetto. La notizia scorre talmente veloce che non si bada minimamente ad analizzarne il suo contenuto di verità. Come può un articolo di gossip essere sottoposto a critica se la realtà è una sola e la si acchiappa facilmente?

Il giornalista di tale rivista mira ad ottenere semplicemente un adesione di opinione tempestiva e contingente da parte del suo lettore a quanto egli suggerisce. Uno si avvale degli “stereotipi”, l’altro si preoccupa di rispettare i valori atti a formare attitudini profonde. Il risultato è quella che potremmo definire informazione contingente, in opposizione ad un’altra non contingente. Tempestiva e contingente è l’informazione il cui valore si identifica nel momento più utile, più opportuno per ottenere la più piena ed immediata adesione del recettore all’opinione sulla quale lo si richiama[1].

Dal parrucchiere, Novella 2000 approfitta della gente che non è disposta, in pieno pomeriggio, a leggere qualcosa di serio. Da un dentista non troverete mai una copia dell’Internazionale, c’è troppa tensione per addentrarsi in un articolo di politica estera. Ed ecco che interviene Novella 2000, con il suo carico di superficialità disarmante e scatti da night club, una sfogliata generale e via in sala operatoria. Potremmo anche comprenderli, i pazienti di un dentista, o di un parrucchiere, basta mettersi nei loro panni.

Un altro conto è chi, settimanalmente, entra in edicola e si accaparra l’ultimo numero della sua rivista preferita. Un conto è la situazione, le circostanze (l’esempio dei pazienti), altra cosa è la volontà di mettersi la giacca ed uscire per comprare Novella 2000.

Per non parlare degli abbonati. Come si può resistere a classifiche tipo “I Re e La Regina del Gossip Italiano”, stravinti nel 2008 da Simona Ventura e Fabrizio Corona! Briatore- Gregoracci la coppia maggiormente bastonata, “tradimenti e matrimoni” le notizie che la gente vuole sentire. Il sondaggio è stato inoltrato a 350 donne appassionate di cronaca rosa, di età compresa fra i 18 e i 55 anni, contattate telefonicamente. Secondo la stessa indagine, la televisione sarebbe il campo ideale per piantare i semi del gossip.

Opinioni su opinioni

“L’opinione è per colui che si occupa di informazione come la farina per il fornaio. E’ la base da cui partire affinché il prodotto finito  risulti gradevole e soddisfi il pubblico – cliente.”[2] Eccovi svelato il trucco: dietro la sua inutilità, Novella 2000 nasconde quanto di più predatorio in tattiche comunicative si possa immaginare. Alla gente che si domanda “Novella 2000, sono anni ormai che si trova in edicola, e non riesco ancora a capire come facciano le persone a leggere tanta banalità” si risponde chiaramente: difficilmente la rivista cesserà di esistere, perché difficilmente da un giorno all’altro la gente cesserà di acquistarla.

A quelli sottolineano che “spesso le notizie sono fasulle” la riposta sta nell’importanza che il poco o nulla di ciò che osserviamo o leggiamo viene, nella maggior parte dei casi, sottoposto a filtraggio. “Non si trasmette mai la realtà tale e quale ma sempre e solo la sua forma”[3]. La realtà ha urgente bisogno di essere manipolata, la capacità di Novella sta proprio in questo: comunicare la realtà nel modo più vicino possibile al suo recettore. Se poi l’identità di tale destinatario sarà ben squadrata allora il percorso di avvicinamento risulta ancora più semplice. La coloritura, l’interpretazione, la semplicità diventano i cardini dell’informazione all’italiana di Novella 2000.

Quanto ce piace chiacchierà” diceva la Ferilli in uno spot. Inoltre la rivista ha un target ben preciso, assolutamente schierato, una bordata di fans che raramente intraprende altre letture. Possono tradire la “madre”, ma è difficile che si stacchino dal filone gossip. La formula d’opinione di un giornalista che scrive per un determinato soggetto recettore sarà fortemente condizionata da tale recettore. La realtà è noiosa, la realtà non può essere comunicata, la realtà di novella è bombardata dallo scoop e inzuppata nel pettegolezzo. Ciò che ne vien fuori è qualcosa di surreale. “Perché non spacciare lo zucchero che quel VIP ha in mano per cocaina?” è un ragionamento tipico, il problema è che si è smarrita la realtà.

Sfogliare Novella 2000 è un piccolo vizio che tutti noi abbiamo indistintamente dal sesso a cui si appartiene. Fa parte della nostra cultura, la curiosità è di casa nostra”. Un’informazione all’italiana, non c’è titolo più appropriato. Quanto a noi studenti, un pizzico di curiosità può essere anche genuina, ma attenzione a non andare oltre.

Conclusioni

Qui non si tratta di essere persuasi da qualcosa di occulto che proviene dall’esterno, chi spende 2 euro per la rivista lo fa perché è la sua volontà lo decide. Il ricettore non è più un soggetto passivo, ma un soggetto opinante di pari dignità che interagisce sempre e comunque con il promotore[4].

La soggettività del promotore, come quella del ricettore, è determinata da tutte quelle circostanze psicosociali che la condizionano[5], e l’Italia non è mica la Svezia, giacché è tradizione qui da noi essere informati sulla vita di chi ha due piedi nel mondo dello spettacolo. Gli italiani sono immersi fino al collo nel mare del consumismo mediatico, dell’omologazione all’informazione dell’attualità. Uno dei principali motivi per cui l’informazione pubblicistica raggiunge facilmente il suo scopo sta nel fatto che essa è alleata dell’ignoranza del ricettore[6].

Di certo Novella contribuisce al meschino gioco, ma da cosa dipende questa enorme ascesa? Certamente dal lettore. Esisterebbe ancora Novella 2000 se nessuno la comperasse? “Dio preservi coloro che ama da letture inutili”, diceva un vecchio filosofo.


[1] – Francesco Fattorello, Teoria della tecnica Sociale dell’Informazione, 2005, Quattro Venti, Urbino

[2] – Giuseppe Ragnetti, Opinioni sull’opinione, pag. 17, 2006, Quattro venti, Urbino.

[3] – Giuseppe Ragnetti, Opinioni sull’opinione

[4] – Francesco Fattorello, Teoria della tecnica Sociale dell’Informazione, 2005, Quattro Venti, Urbino

[5] – Francesco Fattorello, Teoria della tecnica Sociale dell’Informazione

[6] – Francesco Fattorello, Teoria della tecnica Sociale dell’Informazione

Il teatro dello spettatore … palcoscenico del mondo

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI “CARLO BO” URBINO – Laurea specialistica in Editoria Media Giornalismo – Tecniche di relazione – Prof. Giuseppe Ragnetti

“Il teatro dello spettatore … palcoscenico del mondo”

a cura di Adele Frosina


“La poesia non sta solo in chi scrive, ma soprattutto nell’orecchio di chi ascolta”  [R.Benigni]

Tutta la poesia, non solo quella teatrale, è sperimentazione. Ma un libro, un’opera d’arte, non mutano se stessi, al contrario della figura dell’attore teatrale, sempre in contatto col suo pubblico, aperto ad ogni cambiamento e ad intuizioni fino a quel momento probabilmente a lui sconosciute. Bisogna quindi fare una distinzione tra evento teatrale e spettacolo: il primo si svolga in uno spazio/tempo reale, in cui tutti sono parte attiva, sia attori che spettatori. Il secondo è definibile pura “rappresentazione”, in cui l’attore si limita ad essere un preciso esecutore, passivo come il suo pubblico, dell’autore o del regista.

Fatta questa premessa, si potrebbe dire che l’arte scenica in generale è l’unica forma in cui potrebbe (o meglio dovrebbe) avvenire una graduale e lenta mutazione, ovviamente parziale e momentanea, più o meno grande, di tutti i partecipanti al processo.

Il teatro diventa quindi sinonimo di sperimentazione, poesia vivente, l’evadere da un qualcosa di già noto, conosciuto e reale. La presenza del pubblico è essenziale, prescinde dalla quantità, dal numero dei partecipanti, ma non dalla qualità; quest’ultimo aspetto si avvicina a caratteristiche come la disponibilità, la fiducia mentale e fisica, la passione, e perché no, il rischio. Allora teatro come palcoscenico del mondo, dove ognuno dovrebbe recitare la propria parte, togliendo l’ego, il superfluo, per contribuire, anche se in minima parte, alla trasformazione del mondo stesso. Ma non solo. Teatro come la vita, ma non in quanto metafora, bensì come una tecnica di conoscenza che lascia tracce tangibili solo nella memoria.

Si tratta di una pratica artistica collettiva, dove sono essenziali la creatività dei partecipanti oltre alle relazioni che si stabiliscono fra di loro; è una sorta di catena, di circuito, che investe sulla committenza come elaborazione, condivisa, partecipativa, che elabora stimoli e suggerisce spunti di riflessione, spesso sulla società stessa.

A riguardo, sono interessanti le dichiarazioni di Edoardo Sanguineti, Professore di letteratura e autore di teatro, critico, saggista: «Si comunica, a principio, con una ristrettissima cerchia di complici. Poi, quando accade, se accade, l’uditorio si allarga, e l’orizzonte dei destinatari, ma sarebbe più esatto dire dei committenti, si dilata, e diviene un pubblico vero. […] Mancando la committenza, manca anche un’idea del teatro, e questa committenza, se non vuole rimanere una specie di desiderio informe deve articolarsi in istituzioni concrete. È a partire dalla committenza, intesa anche come centro in cui vengono amministrate e regolate le risorse che necessariamente devono sostenere il teatro, che si articola l’operatività di quel fatto comunitario che è appunto il teatro, il quale si alimenta del corpo stesso della società e lo attraversa e ne fluisce fino allo spettatore. […] La poesia non è una cosa morta, ma vive una vita clandestina.»

È a questo punto che si inserisce l’intuizione o la provocazione di Massimo Munaro, regista teatrale. Massimo Munaro e il Teatro del Lemming propongono un nuovo tipo di operazione  drammaturgica: il mito, la fiaba, la tragedia, diventano “attuali” per tutti perché vissuti in presenza, in prima persona, sulla propria pelle e attraverso i propri sensi.

Il suo Teatro dello Spettatore, vuole essere una provocazione nei riguardi della crisi di committenza del teatro contemporaneo italiano (come già aveva presagito Edoardo Sanguineti). Si tratta di fare teatro in maniera del tutto innovativa, mirando a focalizzare l’attenzione sugli spettatori e non sugli attori, dando loro ogni priorità e coinvolgendoli in un processo creativo soprattutto nel momento della realizzazione scenica (durante la quale il soggetto recettore viene invitato ad abbandonare ogni passività per contribuire alla rappresentazione). Così facendo lo spettatore diventa anche committente, portatore attivo di domande, a cui il teatro è chiamato a dare delle risposte come in una sorta di democrazia in cui a prevalere sono  i rapporti diretti.

Il Teatro del Lemming è una compagnia di Rovigo che da alcuni anni, propone spettacoli teatrali che coinvolgono lo spettatore nella drammaturgia mitologica, un viaggio nel teatro e nel mito. Privi di ogni tipo di accessorio o di strumenti più o meno tecnologici, gli spettatori vengono invitati a rivivere su se stessi il mito dell’eroe greco. In Odisseo, ad esempio, i protagonisti divisi in gruppi vengono condotti in diversi luoghi degli scavi archeologici di Ostia; ogni spettatore intraprende il viaggio di Ulisse da Troia ad Itaca incontrando e rivivendo la nostalgia di Penelope, le Sirene, il Ciclope o la maga Circe. Ma non solo, dopo aver vissuto la morte dei soldati troiani tra le proprie braccia ed aver assistito al pianto delle donne, ci si ritrova ad Itaca dove attori e spettatori si rincontrano intorno ad una tavola imbandita. L’esperienza iniziata con il pubblico riunito, identificato con gli Achei, ha poi caratteristiche diverse per ognuno che può essere stato condotto da Hermes o da Atena; nel finale il pubblico arriva ad Itaca, brinda con vino rosso e poi viene congedato. Ripetutamente lo/gli spettatore/i viene messo al posto del personaggio/i principale/i, e può così occupare il posto di Edipo, di Amore o di Psiche, e via discorrendo. Gli attori facilitano solo il viaggio.

Ogni particolare viene pensato per fare incontrare la figura dell’attore con quella dello spettatore, in un dialogo non verbale bensì basato sul linguaggio del corpo che si verifica in uno spazio e in un tempo comuni. Contro la mera rappresentazione, contro una fruizione distaccata, specchio di una temibile passività, l’esperienza sensibile di incontro dei corpi riafferma il teatro come luogo privilegiato in cui la vita accade e non si simula soltanto. Lo spettatore è chiamato personalmente, attraverso i sensi, a rivivere l’esperienza mitica e a far suoi i sentimenti del protagonista. Ed è questo il motivo per cui gli spettacoli presuppongono sempre una partecipazione del pubblico limitata. E’ un teatro del corpo, che non esita a mettere lo spettatore anche in una condizione di vergogna o imbarazzo, mettendo a nudo ogni emotività.

Trenta persone per ricostruire l’identità molteplice e multiforme di Odisseo. Due soltanto per Amore e Psiche, la favola che, attraverso una sorta di iniziazione amorosa, narra la difficoltà della fusione con l’altro. Nell’Edipo una sola persona è introdotta nello spazio teatrale, privato degli effetti personali e reso cieco da una benda nera, è costretto a compiere o a condividere gesti diversi. E nel Dioniso, infine, nove spettatori guidati ciascuno da un partner di scena, si perdono in uno smarrimento fisico, in un crescendo di esperienze sensoriali.

Odisseo del Teatro del Lemming è una lunga e folgorante emozione che assale lo spettatore con la violenza di un’onda solitaria che in una notte calma come il mare d’estate ti scaraventa verso l’abisso tra correnti irresistibili e mostri delle profondità, per poi lasciarti risalire lentamente verso la superficie piatta incredulo e quasi disorientato […].

E’ un teatro che azzera il distacco tra spettatori e spettacolo, che annulla i ruoli per reinventarne altri, per dire al pubblico: “tu sei Ulisse” e chiedergli di viaggiare, carico delle colpe dell’eroe acheo e dei tormenti personali, attraverso cento diverse odissee, quant’è il numero degli spettatori. E’ il teatro da essere, non quello da vedere, in cui lo spettacolo deve significare esperienza dialettica, dinamica, fisica, sensoriale. Un teatro che parla alle emozioni, che chiede libere associazioni al pubblico e al testo […]. Una poetica impegnativa, quella del Lemming, sostenuta da un lavoro tecnico colossale sulle rigorose partiture per i bravissimi attori […] e sullo studio meticoloso dello spazio che qui si moltiplica in tre diversi percorsi simultanei, che troveranno la loro unità solo nella consultazione finale degli spettatori attorno a un banchetto di frutta e vino”. (Estratto rassegna stampa Il Messaggero, 18 agosto 2000, Gian Maria Tosatti)

L’arte si fa quindi interprete del pensiero dell’autore. Facendo un salto nel passato ad esempio, anche Luigi Pirandello si occupò di teatro; drammaturgo, scrittore e poeta italiano, vinse un premio Nobel per la letteratura nel 1934. Pirandello parla di “teatro dello specchio”, perché in esso viene raffigurata la vita vera, quella nuda, amara, senza la maschera dell’ipocrisia e delle convenienze sociali, come se lo spettatore si guardi in uno specchio così come realmente è, e diventi migliore. Definito come uno dei grandi drammaturghi del XX secolo, scriverà moltissime opere, alcune della quali rielaborazioni delle sue stesse novelle, che vengono divise in base alla fase di maturazione dell’autore: in una prima fase si occupa del teatro siciliano, poi di quello umoristico, poi del teatro nel teatro (o metateatro) e infine del teatro dei miti. Nella penultima fase, per Pirandello, il teatro deve parlare anche agli occhi non solo alle orecchie; decide quindi di mettere in atto una tecnica teatrale usata da Shakespeare, “il palcoscenico multiplo”, in cui vi può per esempio essere una casa divisa in cui si vedono varie scene fatte in più stanze contemporaneamente.  Il mondo si trasforma sul palcoscenico. Pirandello inoltre abolisce il concetto della “quarta parete”, cioè la parete trasparente che sta tra attori e pubblico per coinvolgere il suo pubblico che non deve essere più passivo poiché rispecchia la propria vita in quella agita degli attori sulla scena.

E’ nel dramma Ciascuno a suo modo (1924) che si incastrano tre diversi piani prospettici: quello della vita reale, quello della rappresentazione scenica e quello degli spettatori. Mentre in Questa sera si recita a soggetto (1929), affronta il problematico rapporto tra attori e regista, con il coinvolgimento del pubblico.

Nel ’25 Pirandello aveva assistito, in Germania, ad una messinscena del suo Sei personaggi, a cura del regista tedesco di scuola espressionista Max Reinhardt, ed è proprio contro tale tipo di regia che Pirandello si scaglia. La regia tedesca del periodo espressionista prevedeva l’eliminazione di qualsiasi elemento naturalistico, scenografie essenziali ed astratte, ed una recitazione, da parte degli attori, spersonalizzata e straniante. Il testo dell’autore, poi, perdeva valore a vantaggio della libera e soggettiva interpretazione datagli dal regista. Pirandello condivideva solo in parte tali posizioni: il rifiuto per le scenografie sovraccariche ed eccessivamente decorative, così come la libertà della messinscena attuata dal regista.

Agli attori, Pirandello raccomandava di sentire interiormente, immedesimarsi nel personaggio .

Il Codice dell’Anima

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI “CARLO BO” – URBINO – Laurea specialistica Editoria Media Giornalismo – Tecniche di relazione
Prof. Giuseppe Ragnetti

“Il Codice dell’Anima”

Dissertazione a cura di Noemi Bicchiarelli

…il genio può essere confinato dentro un guscio di noce
e ciò nonostante abbracciare tutta la pienezza della vita.
Thomas Mann

Esiste qualcosa, in ciascuno di noi, che ci induce ad essere in un certo modo, a fare certe scelte, a prendere certe vie, anche se talvolta simili passaggi possono sembrare casuali o irragionevoli.

Spesso si ha la vaga sensazione che esiste un motivo per cui la mia persona, che è unica e irripetibile, è al mondo, e che esistono cose alle quali mi devo dedicare al di là del quotidiano e che al quotidiano conferiscono la sua ragion d’essere. Tutti, presto o tardi, abbiamo avuto la sensazione che qualcosa ci chiamasse a percorrere una certa strada, questo “qualcosa” alcuni di noi lo ricordano come un momento preciso della nostra infanzia, quando si avverte un bisogno pressante e improvviso, come se si fosse colpiti dalla forza di un’annunciazione; altre volte la chiamata non è così vivida e netta ma ci restituisce la percezione del nostro destino.

Questo è ciò che in tante vite è stato smarrito, il senso della propria vocazione, ovvero che c’è una ragione per cui si è vivi. Attenzione, non la ragione per cui vivere, non il significato della nostra vita o la scelta di un credo religioso, ma la ragion d’essere, la sensazione che il mondo voglia, in qualche modo, che io esista, la percezione che ciascuno di noi è responsabile di fronte ad un’immagine innata. La nostra persona non è un processo o un evolversi, noi siamo quell’immagine fondamentale. Vocazione, destino, carattere, immagine innata, e cioè gli elementi che, insieme, sostanziano una teoria, la “Teoria della ghianda”, l’idea, cioè, che ciascuna persona sia portatrice di un’unicità che chiede di essere vissuta e che è già presente ancor prima di poter essere vissuta.

Ogni persona viene al mondo perché chiamata, questa l’idea di Platone tratta dal “Mito di Er”: prima della nascita la nostra anima sceglie un’immagine o una sorta di disegno che intende realizzare sulla terra e riceve un compagno che ci guida quassù, un daimon. Il daimon è l’angelo, l’anima, l’immagine, il destino, il gemello interiore, la ghianda, il compagno dell’esistenza, il custode, la vocazione del cuore. Esso avrà il compito di guidarci e orientarci verso il compimento del disegno che la nostra anima ha scelto, tuttavia, una volta nati, ci dimentichiamo tutto questo e pensiamo di essere soli alla mercé della vita e di essere nati vuoti. E’ il daimon che ricorda il contenuto della nostra immagine, gli elementi del disegno prescelto, è il nostro daimon a farci costantemente presente chi siamo e da dove veniamo, a mostrarci il nostro destino.

Tuttavia, se noi, a partire dall’infanzia, gli prestassimo attenzione, riusciremmo a riconoscere le nostre personali vocazioni, allineeremmo la nostra vita su di esse e capiremmo che ogni evento, positivo o negativo, che caratterizzerà il nostro percorso, concorrerà al compimento di tale disegno. Io e voi dunque siamo venuti al mondo con un’immagine che ci definisce, un’immagine innata, un’intenzionalità angelica o daimonica, un’immagine che ha a cuore il nostro interesse, perché ci ha scelti per il proprio.

Un disegno unico e irripetibile che è l’essenza della nostra vita e la chiama ad un destino, l’immagine è il nostro genio personale, il compagno e la guida memore della nostra vocazione. Il daimon ci motiva, ci protegge, inventa e insiste nella nostra vita con ostinata fedeltà, si oppone alla ragionevolezza facile e ai compromessi e spesso ci obbliga alla devianza e alla bizzarria, soprattutto quando si sente trascurato o contrastato; ci offre conforto ma allo stesso tempo può far ammalare il nostro corpo ricordando la sua presenza con sintomi o malattie, è legato ai sentimenti di unicità, grandezza, insoddisfazione, inquietudine del cuore. Vocazione, chiamata, i latini parlavano di genius, i greci di daimon e i cristiani di angelo custode. Essa può essere rimandata, elusa, non ascoltata o a tratti perduta di vista, oppure al contrario possederci totalmente; non importa, alla fine verrà fuori, perché il daimon non ci abbandona mai.

La teoria della ghianda si propone come una psicologia dell’infanzia, afferma con forza l’intrinseca unicità del bambino, il suo essere portatore di un destino, ogni bambino è infatti un bambino dotato e noi dovremmo imparare a guardarlo, tenendo presente la vocazione, il daimon, limitando così l’accanimento del nostro approccio al carattere e alle abitudini infantili; dislessia, ritardo cronico, distraibilità, iperattività, sono sintomi della “Sindrome da deficit dell’attenzione”, ma questo deficit ha un’altra faccia, poiché spesso i bambini così classificati, e anche gli adulti, sono quelli con intelligenza superiore alla media, inclini a perdersi in innumerevoli fantasie e con un’anima talmente aperta e sensibile, che l'”Io” non riesce a starle dietro e il loro comportamento risulta così disorganizzato. E allora, alé! Somministrazioni di Prozac, Ritalin, Xanax e la cura funziona, anche se il fatto che le pillole combattano il deficit, non significa che la causa ne sia confermata, le stampelle funzionano, però non spiegano la mia gamba rotta.

Ma cosa sta facendo il daimon che non sta leggendo, non sta parlando, non sta rispondendo alle aspettative? Per scoprirlo occorrono molta pazienza e una forte percezione immaginativa. Ecco allora che non si parlerà più di patologia, ma di eccezionale, si userà l’espressione “fuori dal comune” piuttosto che “anormale” e invece che storie cliniche lo psicologo leggerà storie di esseri umani. C’è bisogno di uno sguardo nuovo per ripristinare il senso e l’importanza della nostra vita, è necessario ristrutturare la nostra percezione, vedere il bambino che eravamo e l’adulto che siamo.

I nostri genitori non sono né artefici della nostra vita, né colpevoli dei nostri problemi, noi siamo vittime dell’ideologia del genitore, la superstizione parentale ci distoglie dalla nostra ghianda riportandoci da mamma e papà; i genitori dovrebbero dare ascolto e importanza al loro daimon senza sottrarsi al compito che la ghianda gli ha assegnato nella loro vita, se invece un figlio va a sostituirsi ad esso, prima o poi proveranno risentimento per lui, finiranno addirittura per odiarlo. Possono dunque due persone infelici trasmettere felicità? Soltanto un daimon che riceve ciò che gli spetta può trasmettere un effetto di felicità all’anima di un bambino.

La ghianda ha bisogno di un mentore, una persona che apra il suo cuore e percepisca l’immagine che c’è nel cuore dell’altro, l’occhio percettivo è infatti quello del cuore. Diventi mentore se la tua immaginazione sa innamorarsi della fantasia dell’altro; per cambiare il modo di vedere le cose, bisogna innamorarsi, allora la stessa cosa sembra del tutto diversa. Per vedere la ghianda occorre avere occhio per le immagini, occhio per lo spettacolo, per la fantasia, e avere il linguaggio giusto per dire ciò che vediamo.

I nostri fallimenti in amore, nelle amicizie, in famiglia, spesso sono riconducibili a fallimenti della percezione immaginativa; quando non guardiamo con gli occhi del cuore, allora sì che l’amore è cieco, perché in quei casi non sappiamo vedere l’altro come portatore di una ghianda. Mettiti nei panni di tuo marito, di tua moglie, di tuo figlio, di un tuo amico, immagina quello che provano, come sarebbe essere loro, immagina! Forse se guardi meglio con l’immaginazione riuscirai a scoprire un cuore di verità nel loro comportamento; la percezione immaginativa richiede grande pazienza. Tale percezione conferisce una benedizione, mantiene in vita l’essenza di ciò che è percepito e quando essa vede negli affetti del cuore, allora ci viene dimostrata la verità di tale immaginazione. Il figlio pretende, sbagliando, la visione, la benedizione e gli insegnamenti rigorosi del mentore, egli pretende che il genitore sia il suo mentore, ma i due ruoli sono ben differenti.

Un clima negativo si potrebbe però creare quando i nostri genitori non hanno nessuna fantasia su di noi, quando cioè si viene a creare un ambiente neutro e oggettivo, non si è bravi genitori quando ci si astiene dal fare fantasie sui figli, quando si ritiene che ciascuno deve vivere la propria vita e decidere autonomamente, poiché ciò creerà solo distanziamento. I figli non fuggono dall’autoritarismo dei genitori, essi fuggono dal vuoto insopportabile di vivere in una famiglia senza altre fantasie che il fare compere, cenare insieme o lavare la macchina; il grande valore delle fantasie dei genitori per i figli, è quello di obbligarli ad opporsi, a riconoscere che il loro cuore è diverso, eccentrico, insofferente magari; la ghianda ha bisogno di personificazioni viventi della fantasia, persone in carne ed ossa il cui comportamento, modo di vestire, di parlare, porti una sana ventata di immaginazione. Le fantasie dei genitori smaschereranno la superstizione parentale e ci aiuteranno a vedere che io non sono condizionato dai miei genitori, non sono il loro risultato. Il resto non significa amare, perché quando si ama si è pieni di fantasie, di idee (e di ansie).

La ghianda è una realtà invisibile, l’invisibilità è un’idea che turba, da sempre vi è la smania di ingabbiare l’invisibile con metodi visibili, da sempre tutti i corpi immaginali finiscono per fondersi in modo indiscriminato nel mostruoso, l’invisibile diventa l'”alieno”. Il mondo invisibile è il mondo del demonio e bisogna starne alla larga, non posso conoscere ciò che non riesco a vedere; ciò che non conosco temo; ciò che temo odio e ciò che odio voglio distruggere. Sicché, la mente razionalizzata preferisce separare il visibile dall’invisibile, preferisce l’abisso al ponte tra i due mondi, ma la loro compresenza è ciò che alimenta la nostra esistenza e noi arriviamo a riconoscere la straordinaria importanza dell’invisibile, soltanto quando ci lascia soli.

Anche la vita di tutti i giorni si svolge sullo sfondo di elementi invisibili: le forme di energia, le entità della teologia di fronte alle quali ci inginocchiamo, gli invisibili ideali, il tempo,”qualcuno l’ha visto di recente?”. Viviamo circondati da una folla di invisibili che ci danno continuamente ordini: i valori della famiglia, i rapporti umani, uno spietato gruppo di parole mitiche chiamate successo, dominio, economia….nonostante questo tendiamo sempre a separare le due entità e a non vedere l’invisibile davanti a noi. La modalità per percepire l’invisibile, e dunque per percepire la ghianda, è l’intuizione. Intuizione in psicologia significa “conoscenza diretta e non mediata”, è una percezione chiara, fulminea e completa; le intuizioni arrivano senza che vi siano passaggi logici coscienti o pensieri riflessivi, esse arrivano e basta, non le facciamo noi, giungono come un’idea improvvisa, un giudizio certo, un significato colto al volo. Come una rivelazione esse arrivano tutte in una volta, istantaneamente, prescindendo dal tempo.

E’ essenzialmente intuitiva ad esempio la nostra percezione delle persone, noi assorbiamo l’altro tutto insieme, vestiti, corporatura, gesti, postura, voce, espressione, accenti, carnagione, caratteri etnici, sociologici, di classe….tutti questi dati si offrono istantaneamente all’intuizione. Lo stesso vale per un evento, è come se l’intuizione fosse portata da quell’evento o sia insita in esso, un amico mi dice una cosa ed io zac!, ho capito tutto, ho colto al volo ciò che voleva dirmi; leggo pochi versi di una poesia e “vedo” ciò che intendeva il poeta. Le intuizioni possono essere poi completamente sbagliate, essendo chiare, veloci e immediatamente convincenti, ce lo insegnano ogni giorno i nostri atti più tempestivi, come quando ci innamoriamo della persona sbagliata, muoviamo accuse ingiuste o ci diagnostichiamo malattie inesistenti.

Forte è la tensione tra intuizione ed istruzione, non a caso tutti i personaggi più eminenti della nostra epoca presentavano gravi problemi scolastici, lo scarto tra l’innata abilità intuitiva del bambino e l’istruzione formalizzata della scuola, diventa sempre maggiore, la scuola non è infatti in grado di percepire l’invisibile presente nel bambino. La ghianda traccia il confine e nessuno può obbligarla ad oltrepassare il territorio che non è di sua competenza, è come se la quercia non potesse piegarsi, non potesse fingere di essere un pioppo; la ghianda così come porta doni, allo stesso modo pone limiti, e solo se l’insegnante lascia spazio all’intuizione nei suoi metodi, allora si creerà un ponte verso la scuola. Chi può decidere dove la ghianda impara di più o dove l’anima ti mette alla prova? Gli esami sono un esempio dove la nostra vocazione viene verificata, il mio daimon vuole davvero la strada che ho scelto? La mia anima è davvero coinvolta?

Se il riuscire bene in un esame, può rappresentare una conferma, al contrario, una bocciatura può essere il modo in cui il daimon ci fa sapere che abbiamo preso la direzione sbagliata. Spesso la sua intuizione non può assoggettarsi alla normalità dell’istruzione e allora diventa demoniaca, la tristezza dei bambini sui banchi di scuola, non è sempre un esempio di fallimento, bensì, è un modello dell’operare della ghianda. La totale incomprensione o sintomi quali allergia, dislessia, asma, iperattività, sono tutti disturbi che dimostrano l’ostinato attaccamento del bambino al suo daimon, alla sua intuizione, e l’allontanano sempre di più dalla scuola; dalla scuola, sì, ma non dall’imparare, dall’istruzione, ma non dall’intuizione.

Bisogna saper guardare all’invisibile, la porta verso i fattori invisibili presenti nei disturbi dovrebbe sempre restare aperta, nel caso sia poi un angelo a bussare e non una malattia. Per vederlo però occorre occhio per l’invisibile, è impossibile scorgere l’angelo se prima non abbiamo un’idea dell’angelo, il bambino allora diventa solo stupido, caparbio, svogliato o addirittura malato; è necessario essere istruiti nell’arte di vedere, allora tutto ad un tratto l’invisibile diventa visibile, è lì, sotto l’occhio che abbiamo lasciato aperto. Del resto c’è in tutti noi un forte desiderio di vedere al di là di ciò che ci insegna la nostra normale vita/vista.

Lo stesso vale per l’amore, l’innamoramento ci da la sensazione che si tratti di una chiamata del destino, di una complessa e invisibile immagine che portiamo nel cuore. L’esperienza dell’amore trascende ogni condizionamento, pretende devozione al di là di ogni vincolo, è inesorabilmente legato alle fantasie ed è idealizzazione, non imitazione, non la replica del noto, bensì, l’aspettativa dell’ignoto.

La mappa amorosa attraverso la quale costruiamo elementi base del nostro innamorato/a ideale, ancor prima che ci passi davanti o attraversi la nostra strada, può spiegare le cose visibili, i fianchi morbidi, gli occhi azzurri o una bella automobile, ma l’amore s’innamora anche di “qualcos’altro” che è invisibile. “Lui/lei ha quel certo non so che…”, “Il mondo cambia quando sono vicino a lui/lei…” questo sulla mappa non c’è, qui siamo di fronte al mondo della trascendenza dove le realtà normali sono molto meno convincenti delle cose invisibili. Per avere la prova lampante dell’esistenza del daimon basta innamorarsi una volta. Lì ci sei, sei presente tutto intero e in nessun altra occasione ti senti così sopraffatto dal tuo essere e dal tuo destino e in nessun altro momento ogni tuo gesto si rivela così chiaramente ispirato da un daimon.

L’amore promuove la crescita dell’individualità, è una forza che aiuta a creare o potenziare il sé, l’individualità e l’autonomia del daimon; l’innamoramento è un evento raro e fortuito, colpisce ad una profondità incredibile, inspiegabile, e quando accade, accade esclusivamente per la singolarità dell'”oggetto” che è quella persona, non un’altra. Non gli attributi fisici, non le virtù, la voce, i fianchi, il conto in banca, semplicemente l’unicità di questa persona che l’occhio del cuore ha visto fra tante.

In ciascuno di noi è racchiusa un’immagine del cuore, ciò è particolarmente provato quando cadiamo preda dell’amore, perché lì, in quel momento, siamo aperti a dimostrare chi realmente siamo, lasciando intravedere il genio della nostra anima: “E’ innamorato, non sembra più lui!”, “Sembra un altro…dev’essere innamorato!”. L’incontro tra due innamorati è un incontro di immagini, uno scambio d’immaginazioni, quando ciò accade incominciamo a vedere tutto in modo diverso, immaginiamo il mondo in modo romantico e quando lo facciamo intensamente, iniziamo ad innamorarci delle immagini evocate davanti all’occhio del cuore, le nostre immagini ci attirano sempre di più dentro il nostro rapporto.

Ma se tutti hanno una propria individualità, una strada, un destino, un’anima, un angelo, esiste un angelo mediocre? Una vocazione alla mediocrità? Per molti la vocazione è quella di starsene in disparte, di porsi al servizio della via di mezzo, di restare in mezzo alla truppa. E’ la vocazione all’armonia dell’uomo. L’individualità non si può identificare con l’eccentricità. La vocazione accompagna la vita e la guida in maniera impercettibile e in forme meno vistose di quelle a cui si assiste in certe figure esemplari, siamo tutti chiamati, non solo i prediletti. Nessuna anima è quindi mediocre, per quanto convenzionali siano i nostri gusti, per quanto medie siano le nostre prestazioni, non possiamo far coincidere la mediocrità dell’anima con tutto questo o con un mestiere mediocre che una persona fa, poiché potrà essere mediocre il lavoro in sé, ma non il modo in cui è svolto.

Io sono il mestiere che faccio e il mio carattere non è quello che faccio, ma il modo in cui lo faccio, ogni persona, pur svolgendo la stessa cosa, è diversa, perché ciascuno ha un daimon individuale; la teoria della ghianda afferma che ciascuno di noi è un eletto, una ghianda unica e irripetibile che caratterizza ogni persona. Dentro ciascun caso c’è una persona, dentro una persona c’è un carattere e ogni carattere è un destino. Il fatto di seguire il daimon, si traduce nell’avere carattere, il daimon rappresenta i nostri tratti comportamentali più profondi, frena gli eccessi e l’arroganza e ci induce a restare fedeli ai paradigmi della nostra immagine; tali paradigmi si manifestano nel modo in cui ci comportiamo, per trovare il nostro genio quindi, dobbiamo guardare nello specchio della nostra vita, l’immagine visibile renderà manifesta la nostra verità interiore.

Tu sei il modo come sei, il “modo come”, il destino del daimon è nostra responsabilità, egli ci ha scelto come sua dimora, ma ciò non significa che esso si preoccupi del nostro destino, siamo noi che dobbiamo allineare la nostra condotta alle sue intenzioni, poiché le cose che facciamo nella nostra vita hanno effetti sul nostro cuore, modificano la nostra anima e riguardano il nostro daimon. Con il nostro comportamento noi facciamo anima. Come il daimon chiamandoci ci dispensa un bene prezioso, una benedizione, così facciamo noi con lui attraverso il modo con il quale lo eseguiamo.

L’ispirazione ci fa paura e tale paura ci impedisce di tornare a sentire la grandezza nella ghianda di ognuno di noi, indipendentemente dalla sua mediocrità. In una società, in cui le persone fuori dall’ordinario, i tipi strambi, bizzarri, sono rinchiusi in centri, in ospizi, impasticcati con sostanze curative, riabilitati in gruppi; in un’epoca in cui qualsiasi cosa risulti troppo diversa viene emarginata, è importante capire che anche la via di mezzo è una strada per la grandezza, che anche la mediocrità è un valore nel quale il daimon può manifestarsi, dietro ad ogni esempio di mediocrità, c’è comunque un carattere specifico, quella “ciascunità” della ghianda. La nostra società, i nostri media, sanno invece celebrare, esagerare, adulare, ma non sanno immaginare, e dunque non sanno vedere.

Esistono anche caratteri malvagi, esiste una vocazione al delitto, esiste il male; la ghianda può albergare persino un cattivo seme ed un cattivo seme che incontra una personalità, un carattere, che non gli oppone né dubbi, né resistenze, da origine al demone, al male supremo. Non molto c’è da stupirsi poiché questa è l’età della psicopatia, oggi lo psicopatico non si aggira più furtivo come un topo di fogna nei vicoli bui, ma vince le elezioni, buca lo schermo televisivo, amministra nazioni o multinazionali, prende decisioni che sconvolgono intere collettività…è una maschera quella che il demoniaco indossa oggi e continuerà ad indossare domani.

Se per il tuo tipo di personalità la ricompensa che trai dalla violenza impulsiva, dall’omicidio premeditato, dalle tutte le tue cattive azioni, supera in valore la punizione prevista, ti ci butti automaticamente; se poi come accade oggi incontri addirittura una sorta di successo, allora aumenterà in te la convinzione di essere sulla strada giusta. Anche il potenziale criminoso dello psicopatico appartiene al daimon ed è dato con la ghianda, i suoi delitti non sono tanto il risultato di una scelta, quanto di una necessità; tale necessità può comunque essere dirottata, inibita, soffocata, sublimata. Il primo passo da fare per toglier forza al cattivo seme è quello di riconoscerlo pienamente, riconoscere cioè che la ghianda, perfino come cattivo seme, è la più profonda forza motivante della vita.

Il cattivo seme dopo essere stato riconosciuto dovrà poi essere sedato attraverso rituali e rivolto al servizio della collettività; un esempio sono ex detenuti che entrano nelle scuole e spiegano ai ragazzi come opera il cattivo seme, cosa vuole, che prezzo esige e come aggirarlo. Sono riti che oltre a proteggere la società, integrano i demòni, scorgono il daimon nel demonio. La ghianda si manifesta quindi non soltanto come angelo che guida, ammonisce, protegge, consiglia, esorta e chiama, ma sa anche esprimersi con una violenza implacabile.

Il vero concetto di vocazione prende dunque anima e corpo attraverso questa teoria insolita, la teoria della ghianda. Dovremo imparare a vedere la ghianda non più solo come seme o frutto della quercia, essa infatti fin dai tempi antichi è considerata alimento primordiale, è metafora del nostro nocciolo interiore di cui noi stessi ci nutriamo, vocazione dunque, come primo nutrimento della psiche.

La stessa quercia anticamente era considerata un albero ancestrale magico, albero paterno e materno, albero che nella sua forma di ghianda conteneva in nuce la verità; quercia come albero dell’anima, poiché offriva rifugio alle api che vi custodivano nel suo tronco il miele, ingrediente del nettare, bevanda degli dei; quercia come albero grande e saggio, che conosce ciò che all’occhio comune è nascosto, tale conoscenza potrà poi essere rivelata solo a coloro che sanno ascoltare. La ghianda quindi è vita piena in potenza, cioè vita non vissuta, è necessità, è immanenza che attira a sé occasioni, opportunità, conferendo loro lo scopo che meritano.

Non sempre infatti le sue attenzioni sono rivolte a ciò che crediamo sia meglio per noi stessi, ma piuttosto a ciò che è bene per la nostra anima e per la sua crescita spirituale. Dove noi non cogliamo il senso, è proprio lì che essa acquista il suo significato più autentico.

Ecco perché è così difficile comprendere la vita, persino la nostra. “Le folate che ci trattengono sono diversivi? O hanno ciascuna il proprio particolare scopo? Contribuiscono, prese tutte insieme, a far avanzare la barca? Magari verso un altro porto?”, ciò che conta non è tanto stabilire se un’interferenza abbia o no uno scopo, è importante, piuttosto, guardare con occhio sensibile ad esso e cercare il valore dell’imprevisto.

Ciò che spesso vengono chiamati incidenti nient’altro sono che percorsi, tappe obbligate, prove che, anche se non comprese o metabolizzate, aiutano a rafforzare l’integrità della forma dell’anima, aggiungendovi perplessità, sensibilità e vulnerabilità. Esiste infatti un’arte del crescere, cioè discendere: quanto più si discende in noi stessi tanto più la crescita sarà sana, equilibrata e in armonia con l’universo.

Se ognuno di noi con cuore aperto si lasciasse camminare senza indugio, si abbandonasse all’ascolto di un sé autenticamente profondo, percorresse odorando le vie dell’anima, oltrepassasse con lo sguardo il visibile, allora gli errori, le scelte sbagliate, le strade mancate, forse acquisterebbero più senso, perché tutto è per ciò che deve essere, tutto è necessario e noi così siamo, non potevamo essere altrimenti.

Il daimon guida la nostra vita e le nostre scelte. Non è una questione di natura o di cultura, di patrimonio genetico o di influssi ambientali, di infanzia e genitori inadeguati: il dipanarsi delle nostre esistenze è guidato da qualcos’altro che la psicologia scientifica non riesce a focalizzare, perché non si tratta di entità visibili e misurabili. Come la ghianda, anche il daimon e l’anima sono metafore del piccolo ed appartengono al mondo degli invisibili, l’anima infatti non è calcolabile, non è una forza o una sostanza, non ha nulla di corporeo e dunque la natura del daimon e il codice dell’anima, non possono essere compresi con mezzi fisici ma solo con un pensiero aperto e indagatore, un sentimento rivolto al sacro, un’intuizione evocativa e una forte immaginazione.

Il fatto di cercare la ghianda influisce sul modo di vedere noi stessi e gli altri e ci permette di scoprire un po’ di bellezza in quello che vediamo, e dunque ce lo fa amare. Amare questa vocazione e convivere con il suo esigente amore per noi, unirci ad essa finchè morte non ci separi (ammesso che la morte sia la fine), significa considerare la nostra persona come un esempio di tale vocazione, il nostro destino come una manifestazione di un daimon, solo così placheremo le nostre ansie, le nostre paure, la tristezza, l’ossessione di trovare risposte a domande sbagliate; la ricerca della felicità è tutt’altro e l’intera vita non è soltanto un processo naturale, è anche, e forse più ancora, mistero. Ecco il destino, il codice dell’anima, la sua melodia infinita che chiede di essere ascoltata, compresa, abbracciata. Vita che assume significato nella misura in cui realizza la meraviglia cui è chiamata. Stupefacente e appassionante.

…In ultima analisi, noi contiamo qualcosa solo in virtù dell’essenza che incarniamo, e se non la realizziamo, la vita è sprecata.
C.J.Jung

…dal Pettegolezzo all’Opinione

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI “CARLO BO” – URBINO – Laurea Specialistica Editoria Media Giornalismo – TECNICHE DI RELAZIONE – Prof. Giuseppe Ragnetti

“…dal Pettegolezzo all’Opinione”

Elaborato scritto di Francesca Di Felice

INDICE

  1. Che cos’è il pettegolezzo
  2. Le funzioni del pettegolezzo
  3. Le dicerie
  4. Opinioni
  5. La Tecnica Sociale dell’Informazione
  6. Mezzi di comunicazione e pettegolezzi
  7. Bibliografia

Introduzione

Pettegolezzi, voci, chiacchere … a chi non è mai capitato di essere Oggetto o Soggetto di gossip?

Questo breve lavoro nasce con il proposito di presentare la pratica quotidiana del pettegolezzo come insita alle relazioni sociali, evidenziandone i meccanismi di costruzione paragonati a quelli in cui si formano le Opinioni all’interno di un gruppo sociale.

Grazie alla Tecnica Dell’Informazione sociale di Fattorello colui che riceve un messaggio ha pari dignità e capacità di opinione di colui che informa, e così l’autore di pettegolezzi ha l’importante ruolo di mediazione e in-formazione che spetta al giornalista.

Un breve confronto che permette di capire quanto ognuno di noi possa essere responsabile attivamente all’interno dei processi di comunicazione.


“Il pettegolezzo è la voce della verità (..)
E questa voce è magica (..)
Il pettegolezzo è leggero,
freddo e in tal modo assurge
a una sorta di obiettività:
la sua voce sembra insomma
doppiare la voce della scienza

Roland Barthes

Che cos’è il pettegolezzo

Per ‘voce’ ‘rumore’, ‘pettegolezzo’, ‘chiacchera’ si intendono cose diverse. Etimologicamente essi sono effetti: ossia suoni che hanno una intensità e durata variabili. Tuttavia voce e rumore non hanno riferimento solo all’effetto bensì anche alla causa di quell’effetto. La voce infatti rimanda ad un processo di diffusione a catena, mentre il rumore a un processo sconnesso, esitante, limitato localmente. Dal vocabolario il termine pettegolezzo viene invece definito come una “chiacchera inopportuna o indescreta e malevola” e l’origine etimologica è stata individuata nell’antico verbo veneto “petegolàr” che significava emettere piccoli peti (e forse questa espressione ha dato vita a un riferimento all’incontinenza verbale). Oggi il termine ha corrispondenza sia al contenuto che all’oggetto della comunicazione, come storie di bassa lega messe in circolo di proposito da qualcuno per calunniare qualcun altro.

Il pettegolezzo può essere considerato a tutti gli effetti una pratica culturale della vita quotidiana, analizzabile tramite le tipologie dei frames comunicativi nei gruppi ristretti, degli stereotipi, delle modalità di credenze, della sua funzione fàtica.

Gli interlocutori, per trattare il pettegolezzo come forma di comunicazione, devono avere una competenza che implichi la capacità di riconoscere attraverso particolari indicatori quando le azioni comprese intersoggettivamente sono orientate in modo da considerare la conversazione un pettegolezzo. Questa competenza può essere considerata una forma di comprensione quotidiana.

Se si osservano le forme del parlare nella vita di tutti i giorni, soprattutto quelle informali si presentano spesso come narrazioni di storie non sempre sviluppate interamente. Gli eventi sociali vengono tematizzati e raccontati in vario modo, e ogni conversazione di pettegolezzi forma un contesto in cui il significato non è altro che il risultato delle azioni dei singoli partecipanti orientati verso un obiettivo.

Oggetto del pettegolezzo

Oggetto del pettegolezzo è in genere la persona riguardo la quale si spettegola, che viene ovviamente esclusa dalla partecipazione attiva della comunicazione, la sua presenza è marcata solo come oggetto delle chiacchere. Una condizione strutturale del pettegolezzo è sicuramente la conoscenza da parte del destinatario e dell’autore della persona assente che costituisce l’oggetto del pettegolezzo. Un’altra condizione strutturale è la variabile di segretezza reciproca che in un qualche modo è richiesta. 

L’autore del pettegolezzo

È il regista che manovra le informazioni e le trasmette. Il termine inglese gossip infatti non designa solo il pettegolezzo ma anche la persona che spettegola. La posizione dell’autore è intermediaria tra la non conoscenza e la familiarità con il soggetto\oggetto del pettegolezzo. Della sua importante figura di intermediazione ne torneremo a parlare più avanti.

Il destinatario del pettegolezzo

La figura del destinatario non è affatto passiva in quanto chi riceve il pettegolezzo è un partecipante attivo che mostra la volontà di ascoltare e di interagire con l’interlocutore. È soltanto grazie al fatto che esiste un legame specifico tra l’autore e l’oggetto del pettegolezzo che la conversazione diventa infine pettegolezzo. L’oggetto deve essere un conoscente del destinatario almeno indirettamente, dato che la notizia può essere rilevante per lui solo se non riguarda un estraneo. Il rapporto tra l’autore e il destinatario è fortemente modellato dal tipo particolare di informazione che viene trasmessa nell’interazione. Questa relazione di co-informazione unisce i partecipanti in un rapporto di complicità e incide sulla loro relazione fino all’ultimo anche attraverso  lo stile e il tono di scambio che è caratterizzato dalla parità.

Le funzioni del pettegolezzo

Robert Paine nel suo studio “Gossip and Transaction” affermò che il pettegolezzo è innanzitutto un modello di comunicazione informativa che riguarda essenzialmente lo scambio di informazioni rilevanti per i partecipanti dello stesso gruppo sociale. Il pettegolezzo può essere considerato cioè un’istituzione che crea e distribuisce informazioni in base ad interessi individuali. Una forma di azione strategica insomma, il cui scopo primario sarebbe quello di attribuire una validità agli interessi delle persone che spettegolano. Quindi il pettegolezzo, per  il suo modo di trattare l’informazione, sarebbe una tecnica e una risorsa per la gestione dell’informazione dall’interno del gruppo.

Paine è responsabile anche dello studio sull’approccio strategico in prospettiva transnazionale, che spiega il fenomeno del pettegolezzo come un genere di comunicazione informale e un meccanisco per favorire e proteggere gli interessi individuali. Ciò va in contrasto con gli approcci che vedono nel pettegolezzo una forma di preservazione del gruppo (per esempio quello di Gluckman) perché per Paine, in linea con la teoria drammaturgica di Goffmann, le dicerie sono delle forme di controllo dell’informazione per scopi personali, manipolate per influenzare le impressioni che si possono formare.

Forse certe situazioni e certi contesti contribuiscono a determinare la pratica del pettegolezzo e questa prospettiva è strettamente legata al modello teorico della collettività di Turner e Killian secondo cui l’azione di massa deriva da una definizione collettiva di situazione ambigua.

Oltre ad avere una funzione strategica per l’informazione, il pettegolezzo ha funzioni di tipo:

  • Espistemologico, perché si interroga sui valori di verità, sulla veridicità della fonte e sul modo di costruire la verità partendo da informazioni incontrollabili.
  • Sociale, perché essendo implicato nell’intersoggettività mette a fuoco le relazioni sociali.
  • Etica, riguardando tutte le forme di sentimenti, trasgressioni, tradimenti che possono esservi focalizzati.
  • Fàtica, perché mantiene vivo l’interesse nell’interazione e non la fa cadere o chiudere.

Le Dicerie

Diceria e pettegolezzo testimoniano come le persone intendono dare un senso al loro mondo e accordare fiducia al carattere morale e al significato degli eventi. 

Mentre però il pettegolezzo è una forma di interazione sociale che dipende dalla gestione strategica dell’informazione, la diceria (rumor) è stata definita da Allport e Postman come una proposta di credenza trasmessa da persona a persona senza che vi siano criteri di veridicità certi. Essa collega il presente immediato al passato, del quale si serve come bacino di ricorrenza. Una sua caratteristica distintiva è la collocazione attuale e locale, tratta quell’informazione detta contigente, sia simbolicamente che geograficamente.

Knapp ha classificato le dicerie in base alle motivazioni analizzando quelle che si diffusero negli Stati Uniti durante la Seconda Guerra Mondiale e giunse a raggrupparle in 3 categorie:

le dicerie fantasma che esprimono paure e ansie, le dicerie di fantasia che esprimono il desiderio della gente di realizzare un sogno sostenendo che gli eventi siano realmente accaduti, e quelle che portano disaccordo, socialmente nocive.

Le caratteristiche testuali delle dicerie mostrano come la loro brevità sia una proprietà fondamentale della loro forma narrativa. Ciò richiama due processi insiti nella diceria: uniformare e affilare. E’ chiaro a tutti che durante la trasmissione delle dicerie gran parte dei dettagli vengono dimenticati e altri esagerati, infatti l’affilamento è da intendersi come il lavoro di percezione selettiva che avviene durante la memorizzazione di un numero limitato di dettagli.

Un ulteriore aspetto della diceria è che spesso essa è introdotta da particolari frames, cornici testuali che possono rafforzare la credibilità dell’informazione o altre volte possono essere usate per prendere le distanze dall’informazione che si sta per dire, per non assumersi certe responsabilità.

Shibutani e successivamente Allport e Postman hanno espresso la “legge fondamentale della diceria” secondo cui il numero delle dicerie varia a seconda dell’importanza dell’argomento, moltiplicata per l’ambiguità dei dati realmente a disposizione. Se l’importanza dell’evento è nulla o privo di ambiguità, non vi sarà voce. Secondo Shibutani poi, le dicerie derivano dalla rottura dei canali di comunicazione normale e sono “un’improvvisazione cooperativa di interpretazioni”.

La diceria, per il suo essere così breve, legata al contingente e in cerca dell’adesione tempestiva è quindi intrensicamente simile alla notizia giornalistica, a cui si aggiunge il fatto di non essere sempre verificabile.

Pettegolezzo, diceria e moralità

Il legame tra pettegolezzo e conservazione della moralità è stato approfondito da diversi studiosi tra cui Herskovits e West i quali sostengono che il controllo religioso della morale agisce anche attraverso la condanna dei piccoli peccati altrui e la paura.  L’intreccio fra questione morale e pettegolezzo è altresì intricato a livello tematico, non a caso gli argomenti che interessano ai pettegoli sono per lo più quelli ad alto contenuto morale, come le trasgressioni o l’infedeltà.

Per Gluckman il pettegolezzo e le dicerie nei gruppi sociali più ristretti hanno l’importante virtù di mantenere l’unità, i valori e quindi anche la moralità di quel gruppo. Inoltre permettono di controllare i gruppi sociali concorrenti e gli individui che aspirano ad entrarci.

Pettegolezzo e maldicenza sono anche fonti di piacere, ma solo quando un individuo è accettato come membro di un gruppo acquista tale diritto di spettegolare : esso è una caratteristica peculiare dell’essere parte di una comunità. Il meccanismo della maldicenza riconferma e incrementa l’identità e l’esclusività del gruppo rispetto ad altri gruppi e quindi la coesione di un reale senso di comunità.

Gli individui membri di un gruppo sociale giudicano gli altri sulla base di stereotipi, cioè le rappresentazioni fatte della realtà nel tentativo di comprenderla. Sulla base di ciò che ha affermato Lippmann nella sua teoria, anche per quanto riguarda la trasmissione di dicerie e pettegolezzi è necessario tenere presente che gli individui non possono comprendere a pieno ciò che accade nella realtà e i loro giudizi  di opinione sono sempre permeati dagli stereotipi sociali nati dalla collettività di cui fanno parte.

Opinioni

Essendo pettegolezzi e dicerie espressione di opinioni soggettive maturate all’interno di un gruppo sociale, di seguito si specificherà quali sono le teorie costituive dell’opinione.

La teoria elaborata da Joen Stoetzel afferma che “opinare significa per il soggetto porsi socialmente in rapporto con il suo gruppo e con gli altri gruppi esterni” e che quindi essa è una “manifestazione che si concreta nell’adesione a determinate formule di un’attitudine che può essere valutata su una scala obiettiva delle opinioni”. Su una data questione quindi, si possono raccogliere molteplici formule di opinione, che provengono dalle singole elaborazioni dell’uomo su un determinato evento. Ogni soggetto infatti può esprimere un suo particolare punto di vista che dà forma all’opinione, la quale potrà essere condivisa da altri soggetti che vi aderiranno.

L’individuo che fa parte di un gruppo sociale eredita da esso diverse idee, credenze, modi di vedere l’universo e il mondo che si interpongono alla sua visione delle cose, ideali e sentimenti collettivi.

Questo suo essere sociale dell’individuo influenza chiaramente il suo modo di sviluppare opinioni. Affiliarsi ad un gruppo sociale significa identificarsi con gli stereotipi adottati da quella collettività  e comportarsi quindi in armonia con essi nel momento in cui l’individuo esprimerà una opinione.

Stoetzel ha affermato che esistono due modi di sviluppo delle opinioni: in un primo caso ci abbandoniamo ad un pensiero che non è il nostro e a cui abbiamo aderito, nell’altro caso invece sviluppiamo opinioni in relazione alle nostre attitudini personali. Quest’ultime però non possono avere un’autonomia psicologica perché dipendono dalle attitudini profonde della personalità le quali rilevano l’esistenza di principi comuni che dominano i pensieri.

Il pettegolezzo e la diceria, sia considerati come elementi di coesione o controllo del gruppo sociale, sono quindi un esempio di opinioni soggettive sviluppatesi dall’adesione agli stereotipi della comunità sociale di cui si fa parte. Come per le dicerie, l’opinione è frutto di una conoscenza soggettiva di fatti contingenti, uno specifico modo personale di spiegare un fatto, è provvisoria, aleatoria e intrattiene con la realtà legami piuttosto blandi.

Dal pettegolezzo all’opinione

Non c’è alcun ambiente sociale o professione che può sfuggire alla pratica dello scambio di ‘voci’, specialmente negli ambienti politici, intellettuali e nel mondo delle informazioni. Più regna l’incertezza e l’antagonismo, maggiore è lo stato d’animo di dubbio e più il meccanismo del ‘si dice’ e i giudizi di opinione sono rapidi a mettersi in azione. Il dubbio infatti è quel particolare stato d’animo che ci avvolge quando non riusciamo a trovare una risposta ad una domanda o ad uscire da una qualsiasi ambiguità esistenziale. L’inquietudine che accompagna il dubbio provoca quindi uno sforzo di ricerca della verità che sfocia in quei giudizi particolari, non veritieri chiamati appunto giudizi di opinione. Esprimere opinioni è così uno stadio per uscire dal dubbio nei riguardi di problemi contingenti.

Ma come è possibile che si passi dal pettegolezzo alla credenza o addirittura all’opinione?

Le credenze sono quell’insieme di rappresentazioni immagazzinate come descrizioni del reale che vengono attivate ogni volta che l’occasione è appropriata, generando l’indizio comportamentale dell’asserzione e assenso. In realtà molto dipende dal contesto. Nella maggioranza dei casi per esempio, il tema della voce risulta essere molto banale, e l’ambiente in cui ha luogo molto ristretto: in queste situazioni la consistenza della chiacchera difficilmente si irrobusisterà fino a raggiungere lo stato di credenza. Per contro, esistono situazioni in cui un certo contenuto si congiunge con un particolare contesto, tale che la voce riesce a forzare qualsiasi tipo di silenzio o barriera e venga amplificata.

Ovviamente la credibilità della voce dipende dalla natura particolare della persona che la trasmette e del messaggio che comunica. Il credere consiste nel riconoscere l’alterità e costruire un contratto fiduciario . Nell’appropriazione di un’informazione, colui che aderisce a quella particolare forma di opinione, accetta di credere al messaggio del Soggetto Promotore, abbandonando una sua posizione riguardo a qualcosa per fare credito al Destinatario.

Inoltre per essere considerato credibile, si deve poter supporre che l’enunciatore della voce creda nell’informazione sostenuta, e che si ritenga obbligato nei confronti del Recettore a non tradire la sua fiducia. E’ naturale che per essere credibile non basta affermare di dire il vero ma occorre avere alle spalle le prove della propria credibilità. Ecco quindi che chi ci riferisce una voce lo fa presentandosi come molto vicino alla fonte originaria dell’informazione, e anche se dice di non aver assistito direttamente all’evento in causa in compenso afferma di conoscere chi ha visto e sa ecc.

Il lessico usato per proporre la voce, è indicatore di neutralità descrittiva che lascia così aperta la possibilità di ritrattare (‘si dice che’), o rinforzo della credibilità con l’uso di vocaboli che testimoniano una presa di posizione (‘si assicura che’).

L’accettare un’informazione come vera dipende dallo schema di riferimento che ciascuno usa per valutarla come tale. Raramente poi, una voce ci giunge nuda e cruda: è sempre una rielaborazione di chi ce la trasmette che trasforma il rumore in voce, che a sua volta passa dallo stato sconosciuto a quello di conoscenza, dal privato al pubblico, dall’immaginario al reale. È così che una voce assicura la propria continuità trasformando le disposizioni a credere in credenze e poi, se le condizioni si prestano, in convinzioni.

Rumore/Proposte di credenza   >>>   Credenza   >>>   Convinzione

(scambi informali)                   (Memoria collettiva)          (Opinione pubblica)

Viene sottolineato così il legame esistente tra voce, credenza, convinzione e le rispettive casse di risonanza pubbliche : gli scambi di tipo informale per quanto riguarda la prima, ovvero i passaggi di informazioni da bocca a bocca; per quanto concerne la seconda la memoria collettiva, acquisendo una struttura solida  e durevole, e poi la convinzione legata all’opinione pubblica in quanto si consolida attraverso la coesione delle opinioni degli individui, coerentemente alle convinzioni presenti nella società di riferimento.  Nel processo di adesione\rifiuto di un individuo rispetto ad un’opinione esistono diverse fasi, la credenza può diventare una convinzione quando si aderisce totalmente ad un’opinione, finendo per considerarla propria anche se orginariamente non lo è.

Per opinione pubblica si intende quella relativa ad una collettività, il cui soggetto è rappresentato dall’insieme di persone che hanno quell’opinione e ritengono che altri la condividano. Questo soggetto coincide con il concetto sociologico di ‘pubblico’, cioè un gruppo dalle caratteristiche speciali, difficilmente definibile.

Ecco quindi che gli scambi di voci informali possono diventare credenze se acquisiscono una struttura statica, per poi sfociare in vere e proprie convinzioni allorchè l’individuo aderisce totalmente a quelle determinate opinioni, tanto da credere di possedere la verità.

Questo dimostra come l’opinione pubblica non necessiti per forza di estrinsecarsi nelle varie forme in maniera aperta, ma essa può formarsi anche tramite il passa-parola, le voci bocca a bocca. 

La tecnica sociale dell’informazione

La trasmissione di pettegolezzi e dicerie si basa ovviamente sulla comunicazione face-to-face che prevede una interazione diretta tra chi parla e chi ascolta.

In particolare da una parte abbiamo l’Autore del pettegolezzo e dall’altra il suo Destinatario. Essendo l’oggetto della comunicazione in questo caso un’informazione, si mette in atto il rapporto che intercorre tra Soggetto Promotore e Soggetto Recettore così come intesi da Francesco Fattorello nella sua Tecnica sociale dell’informazione. Egli ha affermato che il Soggetto Promotore è colui che ha l’iniziativa dell’informazione da trasmettere al Soggetto Recettore che la riceve attraverso un Mezzo. L’Oggetto dell’informazione, è così una forma, una rappresentazione e manifestazione dell’opinione sulla quale il Destinatario mira ad ottenere l’adesione del Recettore.

L’informazione è quindi una formula di opinione quale risultante da un processo di opinione.

Il pettegolezzo o diceria che vogliamo trasmettere è infatti frutto di una visione soggettiva di un evento, scaturita dal mancato rispetto delle norme sociali presenti in una determinata collettività.

L’autore del pettegolezzo ha l’importante funzione di mediatore nel processo di comunicazione, che spetta al giornalista nell’ambito della tecnica sociale. Il tecnico dell’informazione infatti non trasmette una visione della realtà oggettiva, ma in-forma nel senso di dare forma, manipolare l’oggetto che vuole trasmettere al suo recettore.  Il mediatore-affabulatore si colloca così tra ”l’obiettività” dell’accadimento e il suo Soggetto Recettore attraverso una doppia valenza di soggettività:  quella sua personale  e quella del destinatario dotato delle sue stesse facoltà opinanti e quindi capace di interpretare a sua volta l’interpretazione offertagli.

La notizia da trasmettere è così rielaborata a seconda dell’interpretazione del giornalista e delle caratteristiche degli individui ai quali lui si rivolge. Lo stesso è per l’autore di pettegolezzi, che trasmette visioni soggettive, opinabili, di fatti che ritiene veri e che vuole trasmettere nel modo più possibile vicino al suo recettore. È chiaro così che parlare di obiettività in entrambi i casi è fuori discussione: la soggettività delle informazioni si ripete all’infinito, sia che si tratti raccontare un evento o di raccontare un pettegolezzo.

L’influenza personale

La presunta passività di colui che riceve informazioni è smentita dal fatto che entrambi i termini del rapporto informativo si condizionano a vicenda. L’autore del pettegolezzo in quanto Soggetto Promotore è condizionato dal suo Recettore perché deve adeguarsi a lui nel modo di trasmettere le informazioni per permettergli di percepirle come tali, e viceversa il Recettore apprende notizie a seconda dell’interpretazione propostagli dal soggetto Promotore.

Il potere dell’influenza personale all’interno delle relazioni intersoggettive è stato riscontrato anche dagli studi condotti da Lazarsfield, Berelson e Gauder riguardanti il flusso a due fasi della comunicazione. Secondo questo modello infatti, avrebbero maggiore effetti persuasivi le relazioni interpersonali che i mezzi di comunicazione. Le conversazioni infatti sono più flessibili dei messaggi recepiti attraverso i media, possono essere modificate rispetto all’interlocutore che abbiamo di fronte.  Si è capito così che gli individui non sono isolati socialmente come pensavano le precedenti teorie sugli effetti dei media e soprattutto che i messaggi recepiti vengono sempre mediati e influenzati dalle relazioni sociali. Gli individui più preparati e informati assumono così il ruolo di Leader d’opinione di un gruppo sociale, essendo in grado di influenzare gli altri membri della comunità grazie alla loro conoscenza diretta.

Ecco quindi che l’autore del pettegolezzo si configura come una persona informata di ciò che succede all’interno di una comunità e quindi è il leader d’opinione, ma soprattutto una persona che grazie alle dirette relazioni sociali con gli altri membri del gruppo è in grado di far aderire gli altri alla propria opinione pur non avvalendosi di nessun mezzo di comunicazione se non sé stesso. 

Mezzi di comunicazione e Pettegolezzi

Il rapporto che lega i mezzi di comunicazione con le voci e i pettegolezzi è piuttosto ambiguo.

A volte i mezzi stessi si fanno paladini della lotta contro le chiacchere, mentre a volte si fanno prendere  e confondere da esse, sottostando ai loro meccanismi contorti.

Può capitare che i giornalisti, magari mossi da motivazioni personali, esagerino nello svolgere il loro ruolo di informatori divenendo dei veri e propri trampolini di lancio per l’amplificazione e l’espansione di voci di poca consistenza che però attirano un così vasto pubblico (pensiamo alla diffusione di periodici di stampa scandalistici). In questo caso si può affermare che siano gli stessi informatori a subire una sorta di manipolazione e di pressione. 

La curiosità che alimenta la gente rispetto ai fatti altrui, sia che si tratti di personaggi famosi come per la stampa scandalistica, che di perfetti sconosciuti protagonisti di un reality show, è il cardine del profitto economico che i mezzi di comunicazione sono in grado di fare sfruttando la potenza sociale del pettegolezzo.

Bibliografia

  • Fattorello F., La teoria della Tecnica sociale dell’informazione, a cura di G., Ragnetti, QuattroVenti, Urbino, 2005
  • Marcarino A., Il “pettegolezzo” nella dinamica comunicativa dei gruppi informali, QuattroVenti, Urbino, 1997
  • Ragnetti G., Opinioni sull’Opinione, QuattroVenti, Urbino, 2006.

Teoria della Tecnica Sociale dell’Informazione di Francesco Fattorello: La fine della “persuasione occulta”

“L’informazione rientra fra le manifestazioni
degli uomini inclini all’associazione:
sono i rapporti di informazione
che consentono all’uomo
di vivere in società.”

Francesco Fattorello

“Teoria della Tecnica Sociale dell’Informazione di Francesco Fattorello: La fine della “persuasione occulta”

a cura di D. Lupi

Insegnata per la prima volta alla Facoltà di Scienze Statistiche dell’Università degli Studi di Roma durante l’anno accademico 1947/’48, la Teoria della Tecnica Sociale dell’Informazione di Francesco Fattorello (Pordenone, 22/02/1902 – Udine, 3/10/1985) rimane ancora oggi l’unica teoria italiana del settore formulata su rigorose basi scientifiche.

La modernità di questo approccio teorico sta nel presupposto che non possa esistere un’unica e sempre applicabile teoria sulla comunicazione, ma che il processo d’informazione vada necessariamente tarato sul recettore, che, non più semplice oggetto passivo della comunicazione, diventa soggetto opinante a sua volta.

Nell’ambito di una più complessa dinamica sociale, a questo punto, il soggetto promotore dovrà impegnarsi nella ricerca dell’adesione e del consenso dei destinatari sulla base delle loro attitudini sociali: non basterà più “lanciare” il messaggio.

Gli stessi recettori potranno mostrare o meno la loro disponibilità ad accettare le opinioni proposte, a secondo della propria acculturazione, cioè tutto quello che l’ambito sociale ha trasferito, nell’arco di una vita, al singolo essere umano.

Il fenomeno dell’informazione si realizza nel particolare rapporto che si instaura fra i due termini principali: il soggetto promotore che trasmette, tramite appositi strumenti, un contenuto al soggetto recettore.

xi) oggetto del rapporto di informazione

                                            M mezzo

Soggetto Promotore Sp                   Sr Soggetto Recettore

                             O forma data all’oggetto

Attraverso questa rappresentazione grafica si può capire meglio come agiscano gli interpreti del processo di informazione: Sp rappresenta il soggetto promotore che dà il via al processo informativo; Sr è il soggetto recettore; M è il mezzo attraverso il quale si può saldare il rapporto ed O indica la forma data all’oggetto dell’informazione, ciò di cui si parla, il termine “x” (la lettera è accompagnata da una parentesi ad indicare il fatto che la materia di informazione resta fuori dal processo: ciò che trasmetto è la mia relazione sulla data materia -O-).

Soggetto promotore e soggetto recettore sono soggetti opinanti: opinano su ciò che è motivo dell’informazione. Il termine O, dunque, è l’opinione, la visione della realtà, che il Sp offre sul dato argomento, attraverso la quale cerca di ottenere l’adesione di opinione del Sr.

Il Sp trasmette la “forma” (opinione) che ha dato per rappresentare agli altri la materia oggetto dell’informazione.

“Forma” che dopo essere stata ricevuta, deve essere interpretata dal Sr, che a sua volta si farà promotore verso altri recettori della sua personale interpretazione.

Sono infinite le circostanze nelle quali si può realizzare il fenomeno dell’informazione, che per sua stessa natura non ha un inizio e una fine: la società, infatti, si rinnova e si manifesta in un continuo articolarsi di rapporti sociali.

Chiunque può, quindi, farsi Soggetto promotore, cioè fonte prima dell’informazione, ma, vivendo in una comunità, ha responsabilità sociali e non può violare determinate leggi.

Anche la scelta del linguaggio da parte del Sp ha notevole importanza: per ottenere, infatti, un’adesione di opinione da parte del Sr, il promotore del messaggio dovrà tenere conto dei fattori di acculturazione del recettore.

Il Sr, si badi bene, però, non è un bersaglio colpito dal messaggio, ma è un soggetto attivo, con le stesse facoltà opinanti del promotore, con il quale condivide lo stesso ambito culturale, indispensabile per la socializzazione.

La “condivisione culturale” è necessaria affinché Il contenuto dell’informazione possa essere ricevuto e capito con facilità e senza distorsioni rilevanti. Il “fattore di conformità” deve, infatti, essere tale da raggiungere il recettore nel punto di maggiore sensibilità: il Sp cercherà di adeguarsi ai desideri e alla curiosità del Sr per ottenere adesione di opinione.

L’effetto, però, non sempre è misurabile: si deve sempre riservare una certa parte all’imponderabile, rappresentato dalle facoltà opinanti, autonome e diverse, di ogni essere umano.

Dalla convergenza del rapporto fra il promotore e la forma che egli dà a ciò che è oggetto di informazione e il rapporto fra il recettore e questa stessa forma che gli è trasmessa per mezzo di uno strumento deriva il fenomeno sociale dell’informazione.

Un fenomeno che si rinnova senza limiti.

“CASTIGARE RIDENDO MORES”

Questa teoria, a mio parere, può essere applicata al “fenomeno” della satira.

La satira (termine che proviene dal latina satura lanx, nome di una pietanza mista e colorata) è una forma libera e assoluta del teatro, un genere della letteratura e di altre arti caratterizzato dall’attenzione critica alla politica e alla società, mostrandone le contraddizioni e promuovendone il cambiamento.

La satira è sempre stata fortemente politica, occupandosi degli eventi di stretta attualità per la comunità, ed avendo una notevole influenza sull’opinione pubblica. Per questo motivo è sempre stata soggetta a violento attacchi da parte dei potenti dell’epoca.

La satira, sia da un punto di vista storico che da un punto di vista culturale, risponde ad un’esigenza dello spirito umano che oscilla tra sacro e profano: si occupa, infatti, da sempre di temi rilevanti, principalmente politica, religione, sesso e morte, e su questi propone punti di vista alternativi, e attraverso la risata veicola delle piccole verità, semina dubbi, smaschera ipocrisie, attacca pregiudizi e mette in discussione le convinzioni.

Questo genere condivide alcuni aspetti con altre categorie: con il comico la ricerca del ridicolo nella descrizione di fatti e persone, con il carnevalesco la componente “corrosiva” e scherzosa con cui denuncia impunemente, con l’umorismo la ricerca del paradossale e dello straniamento con cui produce spunti di riflessione morale e con il sarcasmo il ricorso, limitato a modalità amare e scanzonate con cui mette in discussione ogni autorità costituita.

La satira si esprime in una zona comunicativa “di confine” (ha solitamente un contenuto etico normalmente ascrivibile all’autore), ma invoca e, generalmente, ottiene la condivisone generale, facendo appello alle inclinazioni popolari: ne sono, infatti, spesso oggetto privilegiato i personaggi della vita pubblica che occupano posizioni di potere o che godono di una notevole visibilità e fama.

Nella nostra epoca, la satira è sempre più legata al comico e all’umoristico, e continua a confermarsi un mezzo comunicativo di forte impatto e notevole successo.
Ogni giorno, attraverso vignette presenti su quotidiani e imitazioni nelle trasmissioni televisive, veniamo in contatto con questo genere.

E’ ormai consueto, infatti, trovare sulle prime pagine di quotidiani nazionali e internazionali, sui maggiori settimanali e periodici, trovare vignette, che con pochi, ma efficaci tratti, commentano un fatto di attualità.

I vignettisti, per il grande successo e consenso ottenuto, sono ormai elevati al rango di celebrità, tanto da essere ospiti fissi in trasmissioni televisive come “opinionisti”.
Tra i più famosi possiamo ricordare Altan, Bucchi, Staino, Elle Kappa, Vauro e Forattini.

Per la professione del vignettista, pare fondamentale l’applicazione della teoria della tecnica sociale dell’informazione di Fattorello: nella “comunicazione satirica”, oltre ad essere presenti tutti gli elementi che lo studioso friulano indica necessari perché avvenga il processo informativo, è di primaria la condivisione culturale. Potendosi avvalere di un solo disegno, o di pochissime parole, il vignettista deve cercare di far sì che il suo messaggio venga accolto correttamente, o con il minor fraintendimento possibile, attingendo da un “immaginario collettivo” ciò che appare più coerente per la rappresentazione della sua opinione.

La comunicazione andrà a buon fine solo se il pubblico che viene in contatto con la vignetta condivide lo stesso bagaglio formativo: soprattutto per quanto riguarda la “vignettistica politica” è necessari che il lettore sia informato sui fatti, altrimenti il messaggio cadrà nel vuoto.

Indispensabili per il successo di una trasmissione televisiva appaiono ormai anche le imitazioni di persone celebri.
Nell’imitazione, l’imitatore (applicando la teoria fattorelliana) diventa il Soggetto promotore del processo informativo, mascherandosi e adattando la sua voce e le sue movenze (il Mezzo) darà la sua “interpretazione” (O, la forma dell’oggetto) del personaggio ( x, l’oggetto del rapporto di informazione) che ha deciso di imitare.

Il ruolo de Soggetto recettore spetta al pubblico, che sia platea televisiva o teatrale, o uno stretto gruppo di amici, che decreterà il successo della “trasmissione” (intessa come processo informativo) ridendo e approvando le scelte operate dall’imitatore, o, al contrario, con un silenzio imbarazzante, ne segnalerà il fallimento.

Fallimento possibile qualora l’imitatore scegliesse di mettere in risalto alcune caratteristiche o tic che non a tutti i presenti appaiono così evidenti: non c’è cosa peggiore per un imitatore del dover spiegare perché abbia fatto determinati movimenti o, addirittura, chi stia imitando.

Con la maschera si può dire: la vita è una rappresentazione teatrale

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI “CARLO BO” URBINO – Laurea specialistica in Editoria Media Giornalismo – Corso di Tecniche di relazione – Prof. Giuseppe Ragnetti

“Con la maschera si può dire: la vita è una rappresentazione teatrale”

a cura di Marco Luchini

L’idea secondo cui la vita sociale può essere intesa nei termini di una rappresentazione teatrale non è affatto nuova. Già Shakespeare in A piacer vostro aveva fatto dire a uno dei suoi personaggi: “Tutto il mondo è un teatro e tutti gli uomini e le donne non sono che attori.

Essi hanno le loro uscite e le loro entrate. Una stessa persona nella vita rappresenta diverse parti”. Affermazione questa, sicuramente condivisa da Luigi Pirandello, che di maschere se ne intendeva, dato che nella sua poetica l’uomo non ha una personalità, ma molteplici e i suoi personaggi possono essere contemporaneamente Uno, nessuno e centomila.

La “metafora drammaturgica” di Goffman

Chi più di altri è però riuscito a fornire una panoramica esaustiva ed assolutamente originale circa il tema della maschera è sicuramente Erving Goffman, nell’opera del 1956 La vita quotidiana come rappresentazione, dove viene sostenuto il punto di vista della “metafora drammaturgica”.Goffman propone numerosi spunti di riflessione sui parallelismi che legano la vita quotidiana, in particolare le interazioni faccia-a-faccia, all’ambito delle rappresentazioni teatrali.

Partendo dal presupposto di considerare la rappresentazione teatrale come un processo informativo, nel senso di un “dare forma” a qualcosa da parte di qualcuno (attori da palcoscenico) verso qualcun altro (pubblico), si possono fare tutta una serie di considerazioni. Innanzitutto, rispetto all’interazione diretta, il teatro pare essere, paradossalmente, esente da simulazioni volte ad ingannare. Questo perché il teatro gode di un particolare ancoraggio al principio di realtà, che è una differenza a livello di “frame” con le interazioni sociali quotidiane.

Il concetto di “frame” è la nozione cardine su cui poggia la teoria di Goffman. Con il termine l’autore intende designare la “cornice” entro la quale gli individui collocano le situazioni che li vedono protagonisti, di volta in volta affidandosi a schemi interpretativi differenti e collegati al mondo dell’esperienza reale da un margine variabile a seconda dei casi. In poche parole, si tratta del contesto, ossia dello sfondo su cui si collocano le situazioni, che diventa frame nel momento in cui prevale su tutti gli altri.

L’introduzione del “frame” è funzionale per la comprensione del fatto che nel momento in cui il pubblico degli spettatori entra a teatro e prende posto in platea, è comunque in grado di attuare un processo che inscrive tutto quanto quello che sta per accadere sul palcoscenico all’interno di una specifica “cornice” che sarà quella teatrale. Qualsiasi altra cornice verrà perciò esclusa. Saranno gli applausi finali, seguiti dalla chiamata sulla ribalta, a chiarire definitivamente che la rappresentazione teatrale è finita e che tutto ciò che accadrà da quel momento in poi dovrà essere contestualizzato nel frame dell’interazione sociale quotidiana (a sua volta suddividibile in frame secondari).

La differenza maggiore che intercorre fra le cornici interpretative dell’interazione sociale quotidiana e quelle attivate quando si assiste a una rappresentazione teatrale risiede anche nel fatto che quanto avviene a teatro è il risultato di una pianificazione studiata e fissata per iscritto su un copione appositamente creato. Al contrario, nell’ambito delle relazioni umane tipiche della quotidianità difficilmente si ha un tale livello di pianificazione, se non in minima misura.

Volendo riprendere i termini impiegati nell’ambito della teoria fattorelliana, anche nel caso del teatro si potrebbe parlare di manipolazione che ancora una volta, come abbiamo visto, non assume i caratteri della falsificazione, ma piuttosto della “fabbricazione benigna” proprio perché sostenuta volontariamente dal pubblico che vi assiste. Oggetti, scene ed interazioni rappresentate sul palcoscenico sono delle imitazioni di quanto avviene nella vita umana, o se vogliamo, sono la forma data a ciò di cui narra la rappresentazione: il pubblico ne è consapevole, in quanto capace d’inscrivere il tutto nella cornice teatrale.

In nessun momento il pubblico è convinto che quella sul palcoscenico sia la vita vera. In altre parole, assistere a una rappresentazione teatrale significa accettare d’iscrivere il flusso degli eventi in una specifica cornice, il cui punto cardine risiede nel fatto che attori, regista, drammaturgo e addetti ai lavori dispongono del medesimo bagaglio informativo di conoscenze riguardo a ciò che si apprestano a portare in scena. Quanto accadrà sul palcoscenico è predeterminato e conosciuto da tutti coloro che hanno partecipato all’allestimento dello spettacolo stesso. È proprio questo ciò che caratterizza il diverso tipo di ancoraggio alla realtà della rappresentazione teatrale.

Vita e dramma sono comunque legati. Ciò che va rivisto è il loro rapporto. Nel pensiero comune è la vita che precede il dramma. Goffman ritiene invece che è la rappresentazione teatrale ad essere presa a modello nel corso delle interazioni quotidiane.

Quando l’individuo interagisce con altri soggetti, esso si pone nei loro confronti come se fosse un attore su un palcoscenico: racconta ciò che gli è successo per stimolare risposte e coinvolgimento in chi ascolta, interpretando di volta in volta, ruoli differenti. Lo scopo di chi parla è dunque ottenere l’adesione ai fatti che racconta da parte di chi ascolta. In realtà, non è la sola finalità strumentale, ossia il raggiungimento di un determinato fine, a muovere il soggetto verso gli altri, c’è infatti da considerare anche il condizionamento di come si vuole apparire. Quando un individuo è in presenza di altri ha molte ragioni per cercare di controllare le impressioni che essi ricevono dalla situazione.

C’è una differenza fondamentale fra vita e dramma: la conversazione quotidiana (ma, più in generale, la vita nel “mondo reale”) non è finzione, il che implica un diverso grado di coinvolgimento e di attenzione ai rischi e alle incongruenze che di volta in volta presenta, non potendo ricorrere, come invece accade in teatro, a un copione già scritto. La molteplicità del “self” e la varietà dei gruppi sociali possono aiutare l’individuo a superare le piccole difficoltà insite nell’interazione quotidiana.

La molteplicità del “self”

Quando si parla di molteplicità del “self” ci si riferisce alla multivalenza degli individui, ossia alla loro capacità di scindersi in sottoentità distinte, ognuna delle quali dotata di specifici connettivi e apposite convenzioni, che rendano l’individuo stesso capace di muoversi nell’ambito di contesti comunicativi differenti (famiglia, amici, scuola, lavoro e così via).

Il concetto di molteplicità del “self” si pone all’incrocio delle relazioni che intercorrono tra ruoli, persone, competenze comunicative e contesto. Si prenda l’esempio di un incontro di lavoro: se si ragionasse nei soli termini della libertà individuale, ognuno dei partecipanti potrebbe, apparentemente, esprimersi liberamente. Ma dato che, come detto, l’interazione quotidiana segue il teatro, la situazione in questione richiede uno sviluppo parzialmente previsto e prevedibile. Alcuni tratti comunicativi, cosiddetti situazionali, sono richiesti dal contesto, dal motivo di lavoro che obbliga le persone presenti, attraverso leggi sociali che si presume siano, almeno superficialmente, conosciute dai partecipanti, ad attenersi a norme e consuetudini per partecipare alla riunione medesima.

Queste leggi sociali, che vanno dai registri linguistici usati alle buone maniere, dal vestiario alle norme comunicative gestuali, fino alle espressioni del volto da evitare (ad esempio l’occhiolino al direttore generale non sarebbe apprezzato probabilmente neanche tra amici), generano, come restrizioni strutturate all’agire individuale, in un cervello socialmente adulto ed allenato a simili situazioni, uno script, una struttura in cui tutto è libero, ma rigidamente inquadrato all’interno di un processo comunicativo rigoroso, che prevede alternative e non improvvisazioni, parole adatte e non in libertà.

La medesima funzione può essere chiaramente riconosciuta al copione nel caso della rappresentazione teatrale, pur non trattandosi propriamente della stessa cosa.

Ciò dovrebbe far comprendere come le realtà quotidiane degli individui siano create dall’intricato sistema di regole fisiche, biologiche, psicologiche e sociali, e dal modo in cui i soggetti riescono a comunicare contestualmente in modo appropriato, adeguato a come gli altri partecipanti all’interazione si attendono.

Quello che viene messo in pratica è sia un sapere sociale relativo alle regole conosciute, sia un sapere comunicativo che permette di adattare tutto il nostro repertorio, lo script, fatto di gesti, parole, espressioni, movimenti, alla gamma di attese psicosociali oltre che tecniche che il pubblico, cioè gli altri partecipanti all’interazione in quel momento, desidera percepire nella situazione considerata. Cerimoniale, rituale, lavorativa, di svago o casuale che sia.

Gruppi di “performance” e gruppi di “audience”

È assai improbabile che una rappresentazione teatrale coinvolga solamente due individui (un attore e uno spettatore). Probabilmente, partendo da questo tipo di osservazione, Goffman giunge a pensare la vita sociale in termini di gruppi sociali, distinguendoli in due grandi categorie: i gruppi di “performance” e i gruppi di “audience”. I primi sono assimilabili alla compagnia teatrale, mentre i secondi rappresentano il pubblico.

L’esempio citato da Goffman, quello dei camerieri di un hotel delle isole Shetland (luogo in cui ha svolto la sua ricerca), chiarisce questo aspetto centrale della sua teoria. Il gruppo di performance dei camerieri, di fronte al proprio pubblico, ossia i clienti del ristorante dell’albergo, inscena una rappresentazione, mostrandosi deferente, rispettoso, discreto, e così via. Questo accade in uno spazio di “palcoscenico” (sala da pranzo), dove il pubblico è presente. Nello spazio di “retroscena” (cucina), nascosto al pubblico, i camerieri hanno un comportamento del tutto diverso, molto più informale e irrispettoso.

La vita sociale si divide in spazi di palcoscenico e di retroscena, cioè in spazi privati, in cui gli individui non “recitano”, e spazi pubblici in cui inscenano invece una precisa rappresentazione. Naturalmente, il comportamento nel retroscena contraddice il comportamento pubblico: una persona insicura, ad esempio, può assumere in pubblico un atteggiamento spavaldo, e mostrarsi invece vulnerabile nel retroscena (ad esempio in famiglia). La vita sociale si fonda dunque sulla demarcazione dei confini tra palcoscenico e retroscena. Questo significa che il gruppo di “audience” non deve e non può avere accesso alle situazioni di retroscena che contraddicono il comportamento pubblico del gruppo di “performance”.

Prima di continuare il discorso sui gruppi è doveroso fare un’osservazione, sollecitata dallo stesso esempio di Goffman, circa la minore aderenza dell’interazione quotidiana al principio di realtà rispetto al teatro. Infatti, mentre nella rappresentazione teatrale l’evidente distinzione tra pubblico e attori (una convenzione rafforzata anche da una serie di segnali fisici, quali la distanza tra platea e palcoscenico, l’apertura e la chiusura del sipario, lo spegnimento delle luci e così via), permette d’incorniciare immediatamente la situazione nel “frame” teatrale, nell’interazione quotidiana, nello specifico quella del ristorante, la mancanza di convenzioni e segnali forti rende più complessa l’operazione di “framing”. Solo attraverso il ricorso alla “metafora drammaturgica” è possibile semplificare parzialmente l’operazione di ancoraggio alla realtà.

Collante interno ai due gruppi individuati da Goffman è la condivisione degli spazi di retroscena, ossia dei luoghi in cui vengono preparate le rappresentazioni pubbliche. Condividere il retroscena, però, significa soprattutto conoscere i “segreti distruttivi” del gruppo, cioè quei segreti che, portati all’esterno, renderebbero la rappresentazione poco credibile. Tornando perciò all’esempio dei camerieri, secondo quanto appena detto, appartengono al gruppo tutti coloro che sanno quello che i camerieri fanno nel retroscena della cucina. Se un cameriere si mettesse a raccontare al pubblico dei clienti i segreti del gruppo – il modo in cui preparano le portate, il modo in cui mangiano o in cui deridono i clienti – questo verrebbe distrutto, perché la sua rappresentazione apparirebbe come una falsificazione poco credibile.

I segreti del gruppo devono quindi rimanere al suo interno e per questo stesso motivo, il gruppo deve comprendere, per definizione, tutte le persone che sono a conoscenza di questi segreti. Per quanto ascrivibili a due sole categorie, il numero dei gruppi a cui un individuo può appartenere è pressoché illimitato (famiglia, gruppo d’amici, categoria professionale, associazione, circolo informale e così via). Ciò significa che l’individuo, a seconda delle situazioni, può appartenere, sia a gruppi di performance che a gruppi d’audience, può essere cioè sia promotore che recettore d’informazione, nel complesso reticolato del tessuto sociale. L’informazione finisce per configurarsi come una risorsa strategica e come criterio di differenziazione.

Oltre il senso del luogo

L’informazione a cui si fa qui riferimento è intesa nei termini di “informazione sociale”, ossia tutto ciò che gli individui sono in grado di conoscere sul comportamento e sulle azioni proprie e degli altri, attraverso l’apprendimento dagli atti comunicativi. È un tipo d’informazione che arriva in molti modi (parole, gesti, abbigliamento, ritmi di lavoro) e che è profondamente legata al comportamento sociale. Perciò anche lo scambio sociale più banale può essere considerato un sistema informativo, dal momento in cui si tratta di un modello di accesso alle informazioni sociali, un modello di accesso al comportamento di altre persone.

Partendo da questo assunto è possibile rintracciare il continuum, piuttosto che la dicotomia, che esiste tra l’interazione faccia-a-faccia e le interazioni mediate. Di conseguenza, saranno molto più numerose le analogie che le non differenze fra il flusso informativo tramite i media ed il flusso informativo negli ambienti fisici. Infatti, diretti o mediati che siano, i modelli di flusso informativo contribuiscono a definire la situazione ed i concetti di stile e di azione appropriati. Automaticamente, questo non significa che l’introduzione e la diffusione di nuovi mezzi di comunicazione non produca nessun tipo di cambiamento, anzi; ogni volta che un nuovo mezzo di comunicazione ha fatto la sua comparsa, è cominciata ad emergere tutta una gamma di nuove situazioni e di nuovi comportamenti sociali.

Di questo avviso è il sociologo americano Joshua Meyrowitz, autore dell’ultima grande teoria mediologica sulla televisione. Partendo dal superamento della teoria di Goffman, Meyrowitz sostiene che la televisione ha completamente rimosso le barriere tra palcoscenico e retroscena, rendendo visibili tutti gli anfratti più nascosti della società.

Oggi, attraverso la televisione (per non parlare della rete), è possibile conoscere il retroscena dei gruppi a cui non si appartiene: ad esempio, non è più necessario essere un medico per conoscere i segreti distruttivi della categoria dei medici, perché questi vengono mostrati a tutti dalla televisione.

Si può concordare o meno con il sociologo americano quando afferma che non esiste più identità tra luogo e informazione, come quando le notizie di retroscena circolavano, appunto, solo nel retroscena, perché la televisione ha illuminato (o eliminato) tutti i retroscena. È chiaro però che, non riconoscendo il carattere di mascheramento delle interazioni, di qualunque natura esse siano, è come se non si riconoscesse il carattere opinante dei soggetti coinvolti negli scambi informativi. Forse sarebbe più giusto ed opportuno riconoscere che la dinamica sociale dipende sempre più dal modo in cui vengono distribuite le risorse strategiche dell’informazione.

Conclusioni

Affrontare le interazioni ordinarie in termini di schemi interpretativi consente agli individui di connotarle come processi di framing, di cui si serviranno per incasellare e comprendere la realtà che li circonda. Le narrazioni di fatti si configurano come modelli di ancoraggio alla realtà che, con il tempo, si cristallizzano, sedimentandosi fra le risorse cognitive e culturali condivise dalle comunità sociali. In particolare, questo è ciò che accade quando oggetto d’interazione sono i fatti d’opinione proposti dai media. La narrazione consente di dare una risposta a due esigenze fondamentali che l’uomo manifesta durante le interazioni: da una parte serve a dare ordine e coerenza con i quali affrontiamo meglio il flusso di eventi che ci circonda; dall’altra, presentarsi come narratore ad altri soggetti, consente all’individuo di essere accettato con credibilità, simpatia, coinvolgimento da chi ascolta. Ancora una volta dunque, si manifesta l’inevitabile sovrapposizione tra vita e teatro, dato che la forma narrativa è quella prediletta anche dalle rappresentazioni teatrali. Configurare l’esistenza alla stregua del dramma teatrale e quindi, di conseguenza, operare un mascheramento delle informazioni sociali, consente di facilitare le procedure di ancoraggio alla realtà di chi ascolta. Questo perché, evidentemente, dato che la realtà non può essere predeterminata, risulta essere troppo complessa da comprendere così com’è. In fondo, è questo ciò che chiediamo quando ci ritroviamo nel ruolo di pubblico, gruppo di “audience”: sia che si tratti di una narrazione ordinaria, sia che si tratti di una narrazione mediata, colui che si fa promotore dell’informazione deve intervenire con una qualche forma di manipolazione.

Hippie, utopia di rivoluzione

Università di Urbino – Laurea specialistica in Editoria Media Giornalismo – Esame di Tecniche di relazione – Prof. Giuseppe Ragnetti

“Hippie, utopia di rivoluzione”

di Claudia Dondi

Stati Uniti d’America: siamo agli inizi degli anni Sessanta, anni dell’ “American Dream”, il sogno americano, anni in cui è vincente lo stereotipo della famiglia felice composta da due giovani, belli e puliti, con due bambini, altrettanto belli e puliti, che vivono in una villetta, con cane, gatto e giardino, televisore (sempre acceso) in salotto e macchinona nel garage. Per loro, ovviamente, un roseo futuro all’orizzonte. A svegliare tutti arriva il Vietnam: gli americani vanno in guerra.
Gli “hippie”, o i “flower children”, colgono l’artificiosità del modello proposto dalla società, si rendono conto che la felicità è contrabbandata e mascherata dal comfort, mettono a fuoco la monotonia del vivere quotidiano e svelano il più radicato tabù della società borghese: il sesso.

Si spogliano, non solo fisicamente, di tutti gli stereotipi e fondono la cultura insieme alla politica, insieme alla musica, insieme all’arte.

La loro filosofia si basa semplicemente sul rifiuto della società capitalistica e del benessere, sulla volontà di costruire un mondo fondato su alti valori, che non hanno nulla a che fare con i dollari e gli status symbol. Il movimento hippie,sorge sulla costa occidentale degli Stati Uniti all’ insegna del pacifismo, delle filosofie orientali e dei grandi raduni musicali.

Il nome di questo movimento deriva da un termine gergale nero, “hip” (o nella forma alternativa “hep”) che, apparso per la prima volta nei primi anni del 20° secolo, significa “consapevolezza dei fatti”, in pratica descrive “uno che la sa lunga”, “che ha mangiato la foglia”, che ha capito o pensa di aver compreso le brutture e le nefandezze della società e cerca ora un modo alternativo per non far più parte di questo meccanismo perverso, evitando di unirsi al coro dei più, considerati corrotti e spregiudicati. Hippie, “figli dei fiori”, il flower power contrapposto al potere delle armi, il rifiuto delle logiche economiche e politiche prevalenti.

Protestano contro la divisione del mondo in due parti,quello capitalista e quello comunista, il consumismo, il conformismo, le discriminazioni razziali, le tendenze imperialistiche della politica statunitense. In antitesi a tutto ciò esaltano il corpo e la libertà sessuale, l’unione con la natura, di cui i fiori diventano il simbolo, la libertà e la pace. Fanno uso sia di droghe leggere come Hashish e Marjuana, sia di allucinogeni come l’Lsd, poiché ritengono che gli effetti prodotti da queste sostanze liberino la psiche.

Sono alla ricerca di una soluzione esistenziale alternativa all’integrazione sociale, sfociata nella formazione di comunità basate sulla non violenza, in rapporto con la natura, l’abbandono al flusso delle cose, in base all’ideale dell’io-tutto preso a prestito dallo Zen. Alla ricerca della felicità terrena, in continuo viaggio, col classico furgoncino Volkswagen o in viaggio con la mente in un mondo virtuale, ma finalmente nuovo e puro, scevro da canoni e costrizioni.

La “rivolta” hippie segnò la storia dei nostri tempi, concorrendo ad una rivoluzione culturale che si affermò e si diffuse ben oltre il contesto territoriale e sociale in cui ebbe origine, modificando idee, ordinamenti sociali, costumi di vita ed influendo anche sugli orientamenti politici internazionali.

L’affermazione degli ideali pacifisti, dei metodi non violenti, dei diritti civili, di una concezione meno formalistica della famiglia, di una maggiore tolleranza nei confronti della diversità e delle scelte sessuali individuali, il contributo di creatività arrecato dagli hippies alle arti rappresentative e performative (teatro, cinema e pittura), alla musica, con la riscoperta della folk music, del blues e del jazz (e, soprattutto, con il grande raduno di Woodstock nel 1969, ancora oggi una pietra miliare nella storia del rock) deve far comprendere che hippie è tanto altro oltre a capelli lunghi e spinello…

Hippie, “figli dei fiori”, il flower power contrapposto al potere delle armi, il rifiuto delle logiche economiche e politiche prevalenti. Si diffonde l’amore, inteso come modo di porsi di fronte alle cose, alle persone, al sesso, alla vita. Raccolgono seguaci in tutto il mondo, milioni di giovani restano affascinati dall’approccio liberatorio verso la vita.

I portavoce sono le rockstar, icone di una musica e uno stile di vita immortale, vite bruciate troppo presto dalla droga e dagli eccessi. Da tutto il mondo, coloro che si sentono partecipi a queste idee, si radunano in modo spontaneo e inarrestabile. Sono musicisti, poeti, scrittori, insegnanti, a cui si uniscono pure nullafacenti, imbroglioni e semplici sognatori. La ‘rivoluzione dell’amore’ dilaga. Su questa onda di entusiasmi si approda senza soluzione di continuità al 1967, i cui primi mesi condussero inesorabilmente alla celebre “Summer of Love”, estate dell’amore.

Il 14 gennaio 1967 l’enorme raduno all’aperto di San Francisco rese popolare la cultura hippy in tutti gli Stati Uniti, richiamando 20.000 persone al Golden Gate Park. Il 26 marzo, Lou Reed, Edie Sedgwick e 10.000 hippie si raccolsero a Manhattan per il “Central Park Be-In on Easter Sunday”(invasione pacifica di Central Park durante il giorno di Pasqua). Il Monterey Pop Festival dal 16 al 18 giugno diffuse la musica rock della controcultura ad un vasto pubblico e segnò l’inizio della “Summer of Love”. La versione di Scott Mackenzie della canzone di John Phillips San Francisco, divenne un enorme successo negli Stati Uniti e in Europa.

3.5, Monterey International Pop Festival
June 16-17-18, 1967

Il testo, If you’re going to San Francisco, be sure to wear some flowers in your hair cioè “Se stai andando a San Francisco, assicurati di indossare dei fiori nei tuoi capelli”, convinse migliaia di giovani di tutto il mondo a recarsi a San Francisco, a volte portando fiori tra i capelli e distribuendoli ai passanti, guadagnandosi il nome di “Flower Children”.

Gruppi come i Grateful Dead, la Big Brother and the Holding Company con Janis Joplin e i Jefferson Airplane continuarono a vivere ad Haight, il quartiere dove si stabilì la maggiorparte dei giovani convenuti all’evento. Per quanto riguarda questo periodo della storia, il 7 luglio 1967 la rivista Time si presentò con una copertina intitolata “Gli Hippy: La filosofia di una subcultura”.

L’articolo descriveva le linee guida del codice hippy: “Fai le tue cose, ovunque devi farle e ogni volta che vuoi. Ritirati. Lascia la società esattamente come l’hai conosciuta. Lascia tutto. Fai sballare qualsiasi persona normale con cui vieni in contatto. Fagli scoprire, se non la droga, almeno la bellezza, l’amore, l’onestà, il divertimento”. Si stima che circa 100.000 persone si siano recate a San Francisco nell’estate del 1967. I mezzi di informazione li seguirono, rivolgendo i riflettori sul distretto di Haight-Ashbury e rendendo popolari i costumi hippie.

Con questa maggiore attenzione, gli hippy trovarono sostegno per i loro ideali di amore e di pace, ma furono anche criticati per le loro lotta contro il lavoro e pro-droga, e per la loro etica permissiva. Timori riguardo alla cultura hippy, in particolare per quanto riguarda l’abuso di droga e l’assenza di moralità, alimentarono le ansie morali della fine del decennio. Si verificò una incessante copertura mediatica che portò i Diggers di san Francisco a dichiarare la “morte” degli hippy con una cerimonia-spettacolo. Il 6 ottobre 1967 tutte le comuni hippie situate nel circondario di San Francisco si radunano in città. Una moltitudine di ragazzi e ragazze vestiti a lutto si avvia in un lungo e silenzioso corteo che percorre le vie principali.

Ai bordi delle strade percorse dalla singolare processione altri ragazzi distribuiscono volantini che spiegano ai passanti come tutte le comuni abbiano deciso di celebrare “la morte degli hippie”. Il movimento hippie fa il funerale a se stesso per protestare contro lo sfruttamento commerciale della sua immagine, delle sue idee e della sua stessa esistenza. «Questo mondo non ci piace. Siamo nati per cambiarlo e il consumismo ha scoperto che anche la nostra voglia di cambiamento può diventare merce. Per questo il movimento è morto e oggi lo accompagnamo nel suo ultimo viaggio». Basta guardarsi intorno per capire quali siano i fenomeni cui fanno riferimento i ragazzi delle comuni. Le vetrine di San Francisco, i bar, i ritrovi, tutto è stato colorato da fiori.

La scritta “Peace and love” campeggia su un numero impressionante di oggetti e capi di vestiario in vendita. A partire dall’aprile di quell’anno la Greyhound, la più famosa compagnia statunitense di pullman, ha addirittura inaugurato un singolare giro turistico tra le varie comuni hippie di S. Francisco. «Adesso basta, non si possono vendere le idee». Un movimento culturale ed esistenziale nato dalla ribellione al consumismo sta diventando esso stesso oggetto di consumo. Secondo il poeta epigono Stormi Chambless, l’effige di un hippie venne seppellita nel Golden Gate Park a dimostrazione della fine del suo regno. Al di là del gesto simbolico, il funerale segnerà davvero la fine di una fase nella storia degli hippies. Il Flower Power, come lo definiscono i media, non ce la fa; non conquista il Potere, forse perché non era quello che interessava, non era quello che volevano i “figli dei fiori”.

O, forse, perché parole come Pace e Amore cominciavano ad essere una minaccia per l’America, impegnata nelle guerre contro Vietnam e Cambogia, in rapporti tesi con l’Unione sovietica, con conflitti razziali interni e con presidenti e predicatori assassinati. Il trasgressivo slogan dei Figli dei fiori è stato: Fate l’amore, non fate la guerra. Ma la storia e gli eventi lo capovolsero in Non fate l’amore, fate la guerra. Purtroppo, così fu. Il movimento si spezzerà in due tronconi. Uno, sull’onda del “flower power”, finirà per rifugiarsi sempre più in una sorta di individualismo di massa finalizzato alla felicità interiore e lontano dalle questioni sociali.

L’altra scoprirà la politica e affiancherà l’impegno alle esperienze di vita comunitaria finendo poi per confluire nelle grandi battaglie pacifiste e per i diritti civili che di lì a poco infiammeranno gli States.

Conclusioni

Per dirla con il Professor Fattorello, voglia perdonare il tono confidenziale che uso in quanto condivido appieno la Sua teoria, il movimento hippie si disgrega, anzi, decide spontaneamente di autodisgregarsi, a seguito di un attacco strenuo e feroce da parte dei media.

I soggetti promotori dell’informazione si discostano eccessivamente da quel che costituisce “il punto x)” del processo di informazione. E’ risaputo ovviamente che “il fatto, l’ideologia o il personaggio di cui si parla resta fuori dal processo” ma in questo caso, è mia opinione pensare che la “O” di questo particolare processo informativo si sia scorporata completamente dalla x) portando ad un travisamento della stessa. La “O”, che non è altro che la rappresentazione che il soggetto promotore dell’informazione propone al soggetto recettore della stessa, è stata snaturata delle sue parti essenziali.

Probabilmente a causa dell’opinione pubblica dell’epoca – la quale tendeva a non “guardare di buon occhio” le idee e le innovazioni di una subcultura come quella hippie – i testi e le immagini che sono parse più opportune agli informatori dell’epoca sono state proprio quelle che più contrastavano una delicata filosofia come quella hippie. Delicata in quanto, ponendosi come a – politica, non si basava, rispetto all’opinione comune di quegli anni, su fondamenta logiche e storiche abbastanza solide, in anni in cui qualunque minimo e timido tentativo di emergere dalle idee di massa veniva immediatamente sottoposto a tentativi di classificazione in categorie pre – esistenti.

La cultura hippie dopo essere stata fraintesa è stata travisata al fine di poter essere strumentalizzata in una scontata macchina per fare soldi a causa probabilmente della necessità di catalogare quello che invece non vuole e non può essere catalogato ed opinato, qualcosa che si poneva come rottura dei canoni e delle categorie, qualcosa che rappresentava tutto e il contrario di tutto e che ovviamente ci poneva di fronte alla nostra innata paura dell’ignoto.

Il RadioGiornale analizzato con la formula di Fattorello

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI “CARLO BO” URBINO – Laurea Specialistica in Editoria Media Giornalismo – TECNICHE DI RELAZIONE – Prof. Giuseppe Ragnetti

“Il RadioGiornale analizzato con la formula di Fattorello”

a cura di Chiara Vannoni

STORIA DELLA RADIO IN ITALIA

La storia del giornalismo radiofonico nel nostro Paese ha dovuto far fronte, ai suoi esordi, alla concorrenza con il consolidato giornalismo della carta stampata, per poi dover combattere con quello televisivo a partire dagli anni Cinquanta. Inoltre, per alcuni decenni, il giornalismo radiofonico in Italia coincide con il “giornalismo di Stato”. Nei suoi primi anni di vita la radio diventa uno strumento fondamentale per la diffusione delle cronache di guerra. In particolare, con l’impresa bellica in Etiopia, nel 1935, le cronache di regime sono una delle realizzazioni più efficaci dell’informazione radiofonica di questo periodo.

A ciò si affiancano altre rubriche, come la cronaca sportiva e la radiocronaca. Il 10 febbraio 1935 si inaugura il servizio radiofonico in collegamento con l’Estremo Oriente. Dopo l’entrata in guerra, il 10 giugno 1940 tutta la programmazione radiofonica viene utilizzata per far passare le parole d’ordine del regime.

All’inizio del ’43, in seguito alla divisione del Paese in due parti, accanto alle strutture radiofoniche che seguono il regime al Nord, nasce il servizio radiofonico dell’Italia liberata: Radio Bari, Radio Napoli, Radio Roma e la RAI, nata dopo la liberazione di Roma. La radio, quindi, diventa il campo di battaglia di due voci dissonanti: una che persevera nella propaganda fascista, l’altra che contribuisce alla caduta del regime. L’ascolto clandestino di massa delle emittenti alleate e nemiche fu una delle cause più evidenti della caduta dello spirito pubblico in Italia nei mesi che precedono la caduta del fascismo.

Dalla fine della guerra all’avvento della TV, la radiofonia in Italia subisce un’enorme trasformazione. Nei primi anni ’70 la radio sembra attraversare un periodo di stasi. La riforma della RAI nel 1975, che sancisce il pluralismo dell’emittenza radio-televisiva, mette fine per la prima volta al tradizionale centralismo dell’azienda e apre la strada al rinnovamento. Ma un nuovo ostacolo sembra frapporsi sulla sua strada. Con l’ondata della libertà d’antenna, emergono in pochi anni centinaia di stazioni e il modo di ascoltare e fare radio ancora una volta si modifica.

Sempre maggiore importanza assume la determinazione dei palinsesti per la riqualificazione e la conquista del pubblico. Nascono le tre reti e le tre testate radiofoniche: Radiouno, Radiodue, Radiotre con i rispettivi GR1, GR2, GR3.

Negli anni ottanta, in una situazione normativa tutt’altro che semplice e definita, con il diffondersi delle radio private l’ascolto della RAI nel suo insieme conosce un effettivo declino. I network privati crescono sorprendentemente e affinano sempre più le proprie capacità tecniche.

La radio degli anni ’90 ha scritto un nuovo capitolo della sua storia, mostrandosi più che mai adatta al connubio con la crescente rete Internet. Il Giornale Radio RAI è su Internet dal 19 febbraio 1996, prima testata giornalistica RAI in rete. Obiettivo primario è fornire un prodotto giornalistico nuovo, utilizzando Internet come fonte di informazione e come strumento di ricerca e di approfondimento delle notizie trasmesse attraverso la radio.

LA FORMULA FATTORELLIANA

Analizzerò la formulazione di un notiziario Radio secondo la Tecnica Sociale Fattorelliana, la quale spiega con una semplice e altrettanto esaustiva formula quali siano le correlazioni tra i vari fattori che operano in ogni processo di informazione.

Esiste un Soggetto Promotore, il quale interpreta secondo la propria visione soggettiva un fatto, un’informazione, che chiameremo “X”. Questa X nel nostro caso è il notiziario, un ‘pacchetto’ contenente notizie, interviste, approfondimenti e servizi. Infatti seppure la costruzione del GR segua uno schema logico, l’ordine delle notizie e la scrittura sono estremamente soggette a chi le compie, secondo appunto la visione soggettiva del giornalista.

Il Soggetto Promotore trasmette l’informazione usando un mezzo che nel nostro caso è il canale delle onde radio, per comunicare questo messaggio ad un Soggetto Recettore, ovvero chi è in ascolto. Inoltre il Soggetto Promotore elabora l’informazione usando un modo di raccontare l’accaduto, che può essere dato sia da una forma di scrittura che da una particolare intonazione che da più o meno senso alle parole che si stanno leggendo. Questo elemento si chiama “Formula d’Opinione” e varia a seconda del destinatario al quale va il messaggio. Infatti il Soggetto Promotore non può avere la presunzione di scrivere come se stesse stilando un diario personale, o leggere senza particolare intonazione e che un pubblico indistinto debba riuscire a capire ciò che scrive.

A seconda del Soggetto Recettore la Formula d’Opinione e il Mezzo varieranno.

In questo modo le due parti coinvolte nel processo di informazione assumono una pari dignità. Il Soggetto Promotore racconta, il Soggetto Recettore riceve il rapporto d’informazione nei modi e con i mezzi che a questo si adattano maggiormente. Come detto in precedenza, molto importante è l’uso di termini appropriati ma al tempo stesso facilmente conoscibili da un vasto numero di persone. Perchè non bisogna dimenticare che la radio arriva ad ogni genere di personalità senza distinzione di classe sociale e sopratutto cultura.

Per comprendere correttamente i contenuti il Soggetto Recettore rielabora a sua volta l’informazione ricevuta appunto secondo la sua percezione della realtà. Questo diviene così Soggetto Promotore instaurando un nuovo rapporto d’informazione verso altri Soggetti Recettori con Mezzi e modalità (M ed O) consoni a questi ultimi, e così via. In questo modo si costruisce la rete dell’informazione rispetto a un determinato fatto e per un determinato gruppo di persone tra loro legati da rapporti d’informazione.

Da ciò deriva il nome di Tecnica Sociale dell’Informazione.

Teatro e Vita – da semplici spettatori a soggetti di uno spettacolo

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI “CARLO BO” URBINO – Laurea specialistica in Editoria Media Giornalismo – Esame di TECNICHE DI RELAZIONE – Prof. Giuseppe Ragnetti

“Teatro e Vita – da semplici spettatori a soggetti di uno spettacolo”

a cura di Cora Spalvieri

“Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! e come possiamo intenderci, signore, se nelle parole che io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo come egli l’ha dentro? Crediamo d’intenderci, non ci intendiamo mai!” (Pirandello L., Sei personaggi in cerca di autore)

Vita nel teatro. Persone che con le loro capacità ci affascinano recitando una parte. Ci mostrano una realtà che sappiamo non essere realtà, ma pura finzione. Una rappresentazione su un palcoscenico fatta da attori con in mano un copione. Battute imparate a memoria, recitate più o meno bene dinanzi a noi,  gente che spesso per loro non ha nemmeno un volto né identità. Ma deve essere per forza così? 

Teatro nella vita. Noi uomini che ogni giorno indossiamo una maschera e recitiamo una parte diversa per gli altri, il nostro pubblico, che a sua volta recita una parte diversa per noi, il loro pubblico. Stabiliamo relazioni sulla base di queste finzioni e inganniamo il nostro pubblico mostrando una realtà che è pura falsità. 

IL PUBBLICO PARTECIPANTE

Teatro e vita,  palcoscenico e platea, attori e pubblico. Binomi indissolubili all’interno di questo mondo che è la finzione teatrale. Da una parte protagonisti che lanciano dei messaggi, dall’altra uomini che ascoltano delle storie. Tra queste due entità la quarta parete.

La quarta parete fa parte della sospensione del dubbio, cioè nella volontà, da parte del lettore o dello spettatore, di sospendere le proprie facoltà critiche allo scopo di ignorare le incongruenze secondarie e godere di un’opera di fantasia. È quella parete immaginaria, inventata dal teatro naturalista, che separa gli attori dal pubblico, costretto quasi a “spiare” quanto avviene in scena. Il pubblico, in questa ottica, accetta implicitamente la quarta parete senza tenerla direttamente in considerazione, potendo così godere della finzione della rappresentazione come se stesse osservando eventi reali. Insomma questa parete, anche se immaginaria, separa attori e uditori, lo spettacolo dagli spettatori.

Ma nessuno dovrebbe essere marchiato del ruolo di protagonista attivo, e nessun altro di quello di recettore passivo. I ruoli si scambiano, si interagisce. Solo così si stimola il proprio pubblico ad ascoltare. 

Pirandello parla pertanto di infrangere la quarta parete, abbandonare la convenzione di separatezza  per il coinvolgimento fisico o emozionale del pubblico. Se tutto il mondo infatti è un enorme teatro non ha senso isolare il palcoscenico dal resto del teatro e della platea. Quest’ultima non deve essere più passiva,  poiché rispecchia la propria vita in quella rappresentata dagli attori sulla scena. Il pubblico viene così coinvolto non solo emotivamente, ma viene sollecitato anche a fornire risposte utili a completare o integrare il dramma. Ciascuno spettatore viene invitato a risolvere da solo i problemi lasciati insoluti dall’autore e dalla rappresentazione che di fatto diventa mille, diecimila, centomila quanti sono i fruitori.

Accade quindi che il palcoscenico pirandelliano diventi arena di scontro fra diverse realtà, tutte fortemente fondate e credibili. Il personaggio di Pirandello, diversamente da quello tradizionale che chiede allo spettatore unicamente di identificarsi in lui, apre un continuo e  incessante dibattito con il pubblico, stimolandolo ad una riflessione critica, ad un consenso e a volte dissenso sulle tesi che si dibattono attraverso l’azione scenica.

Lo spettatore è chiamato a “partecipare” in modo nuovo, a “entrare in scena” anche lui.

Esempio tipico è “Ciascuno a suo modo”, opera dello stesso Pirandello, dove si incastrano tre diversi piani prospettici: quello della vita reale, quello della rappresentazione scenica, e quello degli spettatori. 

Questa scelta di Pirandello significa intenzione di abolire la separazione tra arte (teatro) e vita (pubblico) e di mescolarle continuamente.

È vero che l’immaginaria linea di separazione tra attore e spettatore permette al pubblico di inserire ciò che vede nella cornice interpretativa della finzione, ossia della narrazione di eventi immaginari, ma è pur vero che l’attore non ha a che fare con un pubblico immobile e senza pensieri, lì seduto a recepire ogni messaggio già modellato e preparato ad hoc per lui, ma ha dinanzi un pubblico con un’anima e con una visione del mondo, un pubblico capace di interpretare la realtà secondo una sua propria visione.

Ecco allora un teatro che accoglie un continuo dibattito di idee, che abolisce il confine tra scena e platea, un teatro in cui lo spettatore è al centro, mentre lo spettacolo lo circonda.

È questo un teatro dove viene esorcizzata la passività del pubblico, cosicché lo spettatore, non più chiamato a ricevere un messaggio preconfezionato, diventi soggetto attivo inserito in un processo di creazione collettivo. 

Teatro dunque visto come evento e non come riproduzione di eventi; un avvenimento vissuto realmente da una collettività, attraverso una partecipazione tanto profonda all’evento teatrale da divenire vera e propria esperienza reale, quasi “una rappresentazione che si nega come rappresentazione, un teatro dove tutti sono attori”.

Partendo da queste considerazioni il teatro non può continuare ad essere visto come un mero contenitore culturale, il teatro è vita, è pubblico. Attore e spettatore devono essere legati da una particolare relazione, simultanea e diretta. Senza pubblico non c’è teatro.

Per troppo tempo il pubblico è stato ignorato, e ancora oggi spesso è considerato come uno spettatore passivo, senza pensieri e capace solo di assistere ad uno spettacolo. Non siamo ancora fuori dal “teatro della quarta parete”, ma bisogna cercare di sfondare questo muro. Perché seduti in platea ci sono pensieri, idee e opinioni, soggetti recettori di messaggi che vogliono potersi esprimere. 

LA VITA E’ UNA CONTINUA RECITA

L’idea secondo cui la vita sociale può essere intesa nei termini di una rappresentazione teatrale non è affatto nuova. Erving Goffman, nell’opera del 1956 “La vita quotidiana come rappresentazione”, sostiene il punto di vista della “metafora drammaturgica” proponendo numerosi spunti di riflessione sui parallelismi che legano la vita quotidiana, in particolare le interazioni faccia-a-faccia, all’ambito delle rappresentazioni teatrali.

Partendo dal presupposto di considerare la rappresentazione teatrale come un processo informativo, nel senso di un “dare forma” a qualcosa da parte di qualcuno (attori da palcoscenico) verso qualcun altro (pubblico), si possono fare tutta una serie di considerazioni.

Innanzitutto, rispetto all’interazione diretta, il teatro pare essere, paradossalmente, esente da simulazioni volte ad ingannare. Questo perché il teatro gode di un particolare ancoraggio al principio di realtà, che è una differenza a livello di “frame” con le interazioni sociali quotidiane. L’introduzione del “frame” è funzionale per la comprensione del fatto che nel momento in cui il pubblico degli spettatori entra a teatro e prende posto in platea, è comunque in grado di attuare un processo che inscrive tutto quanto quello che sta per accadere sul palcoscenico all’interno di una specifica “cornice” che sarà quella teatrale. Qualsiasi altra cornice verrà perciò esclusa. Saranno gli applausi finali, seguiti dalla chiamata sulla ribalta, a chiarire definitivamente che la rappresentazione teatrale è finita e che tutto ciò che accadrà da quel momento in poi dovrà essere contestualizzato nel frame dell’interazione sociale quotidiana.

Nell’impianto teorico di Goffman riguardo la vita comune, veniamo a trovare attori, palcoscenici, pubblico, quel che manca è un copione fisso. L’idea di Goffman  è che i gruppi sociali si dividano in due categorie: i gruppi di “performance” e i gruppi di “audience”. Infatti è  improbabile che una rappresentazione teatrale coinvolga solamente due individui (un attore e uno spettatore), pertanto, partendo da questo tipo di osservazione, Goffman giunge a pensare la vita in termini di gruppi sociali, distinguendoli appunto nelle categorie già citate: gruppi di “performance” e gruppi di “audience”. I primi sono assimilabili alla compagnia teatrale, mentre i secondi rappresentano il pubblico. La vita per Goffman è quindi una rappresentazione che i gruppi sociali mettono in scena di fronte ad altri gruppi. Per chiarire meglio il concetto Goffman cita l’esempio dei camerieri in un hotel delle isole Shetland (dove aveva svolto la sua ricerca).  Il  gruppo di performance dei camerieri, di fronte al proprio pubblico, i clienti del ristorante, inscena una rappresentazione, mostrandosi deferente, rispettoso, discreto, e così via. Questo accade in uno spazio di palcoscenico, la sala da pranzo, dove il pubblico è presente. Nello spazio di retroscena invece, nascosto al pubblico, i camerieri hanno un comportamento del tutto diverso, molto più informale e irrispettoso. La vita sociale, quindi, si divide in spazi di palcoscenico e di retroscena, cioè in spazi privati, in cui gli individui non “recitano”, e spazi pubblici in cui inscenano invece una precisa rappresentazione.

Prima di continuare il discorso sui gruppi è doveroso fare un’osservazione, sollecitata dallo stesso esempio di Goffman, circa la minore aderenza dell’interazione quotidiana al principio di realtà rispetto al teatro. Infatti, mentre nella rappresentazione teatrale l’evidente distinzione tra pubblico e attori, permette d’incorniciare immediatamente la situazione nel “frame” teatrale, nell’interazione quotidiana, nello specifico quella del ristorante, la mancanza di convenzioni e segnali forti rende più complessa l’operazione di “framing”.

Torniamo ai gruppi. Il loro collante interno è la condivisione degli spazi di retroscena, ossia dei luoghi in cui vengono preparate le rappresentazioni pubbliche. Condividere il retroscena, però, significa soprattutto conoscere i “segreti distruttivi” del gruppo, cioè quei segreti che, portati all’esterno, renderebbero la rappresentazione poco credibile. Tornando perciò all’esempio dei camerieri, secondo quanto appena detto, appartengono al gruppo tutti coloro che sanno quello che i camerieri fanno nel retroscena della cucina. Se un cameriere si mettesse a raccontare al pubblico dei clienti i segreti del gruppo, quest’ultimo verrebbe distrutto, perché la sua rappresentazione apparirebbe come una falsificazione poco credibile.I segreti del gruppo devono quindi rimanere al suo interno e per questo stesso motivo, il gruppo deve comprendere, per definizione, tutte le persone che sono a conoscenza di questi segreti. 

Per quanto ascrivibili a due sole categorie, il numero dei gruppi a cui un individuo può appartenere è pressoché illimitato (famiglia, gruppo d’amici, categoria professionale, associazione, circolo informale e così via). Ciò significa che l’individuo, a seconda delle situazioni, può appartenere, sia a gruppi di performance che a gruppi d’audience, può essere cioè sia promotore che recettore d’informazione, nel complesso reticolato del tessuto sociale. L’informazione finisce per configurarsi come una risorsa strategica e come criterio di differenziazione. 

Da quanto visto Goffman sembra prendere in considerazione tutti gli elementi della recita: un attore (un uomo comune) svolge la sua parte in un’ambientazione teatrale (qualsiasi luogo nel quale ha bisogno di inscenare una nuova realtà, o identità) che si compone di un palcoscenico e di un retroscena. In questa interazione i vari elementi del gioco s’influenzano e sostengono reciprocamente, infatti l’attore è osservato da un pubblico, ma al contempo egli è un pubblico per la “parte recitata” dai suoi stessi spettatori. Sì, perché nelle interazioni, o rappresentazioni che dir si voglia, i partecipanti possono essere simultaneamente attori e pubblico. Gli attori di solito tentano di far prevalere quelle immagini di loro stessi che li pongono favorevolmente in luce, ed incoraggiano gli altri soggetti, in vario modo, ad accettare la loro definizione della situazione inscenata.

CONCLUSIONI

Dal teatro alle interazioni sociali, dal palcoscenico agli uomini, comunicare è mettere in relazione. 

E mettere in relazione vuol dire che vi sono due o più soggetti che tra di loro scambiano parole, idee, significati.

Come già visto la differenza maggiore che intercorre fra le cornici interpretative dell’interazione sociale quotidiana e quelle attivate quando si assiste a una rappresentazione teatrale risiede nel fatto che quanto avviene a teatro è il risultato di una pianificazione studiata e fissata per iscritto su un copione appositamente creato, è una falsificazione benigna della realtà, o meglio si parla di finzione. Al contrario, nell’ambito delle relazioni umane tipiche della quotidianità difficilmente si ha un tale livello di pianificazione, se non in minima misura, e non sempre siamo in grado di capire in quale frame interpretativo dobbiamo inserire ciò che viviamo, vediamo o ascoltiamo. 

Ma comunicare è essere attivi in questo processo di scambio continuo che è la vita, sia quella della finzione teatrale che quella nella vita reale. 

Gli interlocutori di una comunicazione hanno pari dignità.

È quello che Fattorello ci dice con la sua Teoria della tecnica sociale dell’informazione: il soggetto recettore del messaggio non deve più essere considerato mero soggetto passivo nei fenomeni  dell’informazione, ma soggetto che interagisce con tutti gli elementi del rapporto, al fine di migliorare sempre più le possibilità di dialogo tra promotore e recettore. 

Soggetto promotore e soggetto recettore sono quindi entrambi soggetti opinanti, soggetti che percepiscono il mondo in mille modi differenti  ed espongono agli altri la propria percezione e così: la percezione alimenta l’esperienza, l’esperienza condiziona la percezione.

Soggetto promotore e soggetto recettore nell’informazione contingente: un rapporto in evoluzione

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI “CARLO BO” – URBINO – Laurea specialistica in Editoria Media Giornalismo – Tecniche di Relazione – Prof. Giuseppe Ragnetti

“Soggetto promotore e soggetto recettore nell’informazione contingente: un rapporto in evoluzione”

a cura di Claudia Pasulo

Se oggi studiando la teoria di Francesco Fattorello riconosciamo la portata rivoluzionaria delle sue idee, è perché quando esse cominciarono a circolare, ovvero dal 1947 in poi, ancora prevalevano una serie di pregiudizi secondo i quali i mezzi di informazione potevano subdolamente manipolare le coscienze degli individui.

Quando Fattorello elaborava la sua teoria infatti, alcuni dei concetti che oggi abbiamo accettato, come quello di comunicazione negoziata, o di interpretazione, o di decodifica aberrante, non erano ancora stati formulati dagli studiosi di comunicazione. Motivo per cui il valore innovativo della Tecnica Sociale dell’Informazione, può essere adeguatamente colto soltanto se contestualizzato all’interno di una cornice culturale e sociologica che all’epoca era ancora molto lontana dal cogliere le dinamiche comunicative nella loro complessità, e in cui di fatto il destinatario era concepito come terminale passivo, indifeso e acritico del processo informativo. Da più parti si propendeva per un’idea di comunicazione a senso unico (dai mezzi di comunicazione ai destinatari), in cui il pubblico era considerato vittima di un apparato mediatico onnipotente.

Gli studi enunciazionali, la semiologia, i cultural studies, che pure avrebbero contribuito a rivalutare il ruolo del destinatario restituendogli finalmente un minimo di dignità e spessore intellettuale e a riconoscere altresì l’importanza cruciale del contesto sociale, erano ancora di là da venire quando Fattorello parlava ai suoi studenti di soggetto promotore e soggetto recettore come termini di un rapporto informativo simmetrico, in cui il soggetto recettore era in grado di aderire o rifiutare quanto proposto dal soggetto promotore. Questa assunzione, che forse oggi può apparire scontata, era impensabile in un periodo in cui gli studiosi erano intenti a scagliare anatemi disperati contro un sistema mediale pericolosissimo e malvagio che minacciava la massa sprovveduta con i suoi poteri di persuasione occulti.

La relazione tra soggetto promotore e soggetto recettore costituisce a mio parere l’aspetto più interessante della teoria, soprattutto perché gli attuali mezzi di comunicazione consentono molto più dei tradizionali mass media di massimizzare il loro rapporto, esplicitando compiutamente il ruolo del recettore quale soggetto interpretante e in un secondo momento promotore dell’informazione stessa. Mi spiego meglio: il processo previsto dalla teoria di Fattorello, nonostante si applichi a qualunque processo informativo, trova in pratiche comunicative quali i forum e i social network, nelle realtà web 2.0, nelle edizioni online dei tradizionali quotidiani e, per farla breve, in tutte quelle forme di comunicazione in cui assistiamo alla continua produzione di contenuti da parte degli utenti-recettori, una visibile rappresentazione.

L’obiettivo di questa tesina sarà pertanto quello di illustrare la teoria di Fattorello nei suoi aspetti fondamentali, concentrandoci in particolare sul carattere bilaterale e continuo del processo informativo, utilizzando a titolo esemplificativo proprio le nuove pratiche di socialità interattive che si sviluppano su internet.

La tecnica sociale dell’informazione: uno sguardo d’insieme

Secondo Fattorello tutte le volte che parliamo, raccontiamo, esponiamo un pensiero, quello che in realtà stiamo facendo è cercare di accreditare la nostra opinione, con l’intenzione, che ne siamo consapevoli o meno, di convincere il nostro interlocutore della sua giustezza. Tuttavia l’opinione, a differenza della credenza, non può essere considerata assolutamente giusta, poiché il suo oggetto è sempre qualcosa di oscuro e inafferrabile, qualcosa di inconoscibile o non ancora conosciuto (il futuro ad esempio), o ancora qualcosa che si presta a diverse valutazioni a seconda dei punti di vista, motivo per cui le opinioni su un medesimo argomento sono sempre diverse e contraddittorie. Se l’opinione potesse essere verificata allora diventerebbe conoscenza e quindi patrimonio della cultura condivisa. Al contrario l’opinione è un qualcosa di estremamente provvisorio e mutevole, poiché non poggia su un sapere consolidato e verificabile, ma è piuttosto un nostro modo di osservare un dato problema, in un dato momento, da un determinato (e dunque limitato) punto di vista. Da questa premessa deriva il carattere effimero e soggettivo di qualunque opinione, nonché la sua impossibilità di essere durevole nel tempo. Come spiega Lippman inoltre, la realtà è estremamente complessa perché gli uomini possano averne una conoscenza esaustiva e profonda; piuttosto, essi colgono della realtà solo alcuni frammenti, frammenti con i quali vanno a costruire le proprie rappresentazioni stereotipate e soggettive del mondo che li circonda. Da qui derivano le innumerevoli interpretazioni (opinioni) che possono essere date circa un medesimo oggetto.

La Tecnica Sociale fattorelliana è tecnica dell’ informazione e non della comunicazione proprio perché parte da questi presupposti. Il termine informazione infatti, sottende un processo preliminare di messa in forma della realtà, la quale una volta in-formata viene trasmessa al soggetto recettore. In altri termini, qualunque sia l’oggetto di discussione, non è l’oggetto in quanto tale che viene inserito nel processo informativo ma solo una sua particolare forma o interpretazione, quale è stata data dal soggetto promotore. Il soggetto promotore filtra infatti la realtà attraverso quelli che sono i suoi interessi, i suoi valori e soprattutto le attitudini che sono il risultato della sua acculturazione. Qui occorre fare alcune precisazioni. Soggetto promotore e soggetto recettore sono soggetti sociali nella misura in cui sono il risultato non soltanto dell’educazione che hanno ricevuto, o degli strumenti culturali di cui dispongono, ma anche di tutte le varie esperienze che li hanno formati, dei valori a cui sono stati socializzati dai gruppi di riferimento (famiglia, amici), delle idee e delle credenze che hanno interiorizzato e che, come spiega Stoetzel, «si frappongono come un prisma tra l’individuo e la sua visione delle cose». Le attitudini si vengono formando gradualmente sotto l’impulso di tutti questi stimoli squisitamente sociali, ai quali gli individui sono sottoposti sin dall’infanzia e dai quali ereditano le proprie visioni del mondo. Ecco perché la tecnica dell’informazione è tecnica sociale, perché ciò che erroneamente crediamo essere un nostro personalissimo modo di pensare, è in realtà un prodotto differito di tutti le pressioni ambientali a cui siamo stati sottoposti lungo l’arco di una vita. L’attitudine è un po’ la sintesi di tutto quello che abbiamo assimilato. E l’attitudine è ciò da cui derivano, anche se non in maniera deterministica, tutte le nostre opinioni.

Il processo informativo è dunque un processo complesso, che vede protagonisti due soggetti in ugual misura opinanti: l’uno, il soggetto promotore, che innesca il processo trasmettendo la sua opinione su ciò che è oggetto d’informazione, l’altro, il soggetto recettore, destinatario dell’opinione, che a sua volta la interpreta filtrandola attraverso valori e attitudini che gli sono propri. Da questo punto di vista diciamo che il rapporto tra i due termini del processo è paritario. Perché il soggetto recettore può rifiutare l’opinione proposta dal promotore, oppure può aderirvi se conforme alle sue attitudini e allora ci sarà comunicazione. Il recettore potrà in un secondo momento esprimere la propria opinione e diventare così promotore presso altri recettori, i quali diverranno poi promotori, e così via. Di conseguenza il recettore non è mai un bersaglio passivo, ma decide se concedere la propria adesione o meno attraverso una serie di passaggi preliminari. La primissima fase è quella del contatto che si realizza attraverso un determinato mezzo. La seconda è quella dell’interesse, che è già una fase discriminante perché il recettore potrebbe considerare irrilevante, sulla base dei suoi interessi e delle sue attitudini, l’argomento di cui si parla, nel qual caso il processo verrebbe interrotto. La fase successiva è quella dell’attenzione, cui segue la valutazione. La valutazione è una fase cruciale perché è quella in cui il recettore stabilisce l’effettiva coerenza tra l’opinione propostagli e il sistema di credenze e valori al quale fa riferimento, ed è a partire da questa valutazione che egli deciderà se concedere la propria adesione d’opinione o meno.

Bisogna tuttavia considerare che quando si opina su qualcosa vengono chiamati in causa anche quelli che vengono definiti fattori di conformità. I fattori di conformità agiscono nel senso di rendere per l’appunto conformi le opinioni. Essi hanno una carica sociale tale da risultare in qualche modo coercitivi, limitando di conseguenza la libertà del soggetto di dissociarsi da una data opinione. Fattori di conformità sono la ragione, i valori condivisi, l’opinione della maggioranza (conformismo sociale) e infine gli stereotipi. Sebbene dunque le opinioni siano soggettive (e non private) i fattori di conformità possono in qualche modo alterare l’autenticità di un opinione.

Riassumendo, la formula del processo informativo viene così schematizzata da Fattorello:

x)

                                 M

Sp                                                             Sr

                                 O

dove x è ciò di cui si parla, l’argomento oggetto di opinione, che come abbiamo detto rimane fuori dal rapporto d’informazione ma ne è il presupposto; Sp ed Sr sono rispettivamente il promotore e il recettore; O è la forma che Sp ha dato ad x, ovvero la sua interpretazione, l’opinione; e infine M è il mezzo attraverso cui si stabilisce il rapporto d’informazione.

Ora, vorrei soffermarmi proprio sul mezzo. Abbiamo detto che il rapporto che lega i due termini è bilaterale, dal momento che il recettore ha piena facoltà di interagire con il promotore discutendo l’opinione e rivestendo in un secondo momento egli stesso il ruolo di promotore. Tuttavia, lo strumento attraverso cui avviene il contatto tra Sp ed Sr può in qualche misura limitare la reciprocità tra i due termini, rendendo in tal modo il rapporto sbilanciato a favore del promotore. Questo è quello che avviene con i mezzi di comunicazione di massa. Infatti come sappiamo, i contenuti di tv, radio e giornali vengono confezionati da un ristretto gruppo di persone e rivolti a un vasto pubblico di recettori, il pubblico di massa. Non vi è interazione e non vi è feedback. I recettori possono naturalmente rifiutare di aderire alle opinioni proposte, tuttavia non possono obiettare o confutare quanto viene loro detto, almeno non immediatamente. Questo limite è proprio dell’informazione contingente, informazione tempestiva il cui oggetto è l’attualità e in cui il rapporto tra Sp ed Sr è di breve durata. Ragion per cui l’adesione, quando vi sia, è immediata e superficiale. La brevità del rapporto di informazione contingente, nonché le peculiarità del mezzo (tv, radio, stampa), riducono la bilateralità entro il limite di tempo in cui il rapporto si attua. Vale a dire che il recettore potrà sempre pubblicare una rettifica sul giornale, ad esempio, ma la sua opinione verrà comunque pubblicata il giorno seguente, cosicché la sua informazione rintraccerà un pubblico di recettori ben diverso da quello del giorno prima. Tuttavia, se è vero che il rapporto informativo contingente realizzato attraverso i tradizionali mezzi dell’informazione pubblicistica privilegia il ruolo del promotore a scapito del recettore, la rivoluzione operata nell’attuale panorama mediale dai cosiddetti new media sembra poter superare alcuni limiti intrinseci dei media di vecchia generazione, arricchendo lo scambio informativo e valorizzando proprio l’opinione del recettore. Vediamo come.

Potere al recettore digitale

Quando parliamo di web 2.0 ci riferiamo a tutte quelle pratiche comunicative che si sono sviluppate con il passaggio da un web di prima generazione (non a caso detto 1.0), a una nuova filosofia di concepire la rete e il rapporto tra produttori di contenuti e consumatori. La filosofia del web 2.0 infatti, che si è sviluppata in maniera progressiva e graduale, parte da un presupposto molto semplice: gli utenti sono in grado di aggiungere valore con la propria partecipazione. Se un tempo la rete offriva una relazione tra promotori e recettori a senso unico, non dissimile quindi da quella dei media di massa, il nuovo approccio alla rete segna il passaggio ad un’epoca in cui gli utenti di internet diventano sempre di più protagonisti del processo informativo. Gli utenti fruiscono dei contenuti, rispondono con altri contenuti, scambiano opinioni, caricano video, canzoni, leggono i commenti, discutono, in altre parole arricchiscono lo scambio informativo creando un’agorà in cui ogni utente, con le proprie opinioni e i propri interessi, ha facoltà di esprimersi tempestivamente e in tempo reale. L’esempio più significativo in questo senso è senza dubbio costituito dai social network. Tuttavia i siti che offrono questa possibilità sono ormai innumerevoli.

Antesignano della pratica dell’authoring, intesa come possibilità di creare e immettere contenuti, è stato Wikipedia nel 2001. Wikipedia è un’enciclopedia online pubblicata in 266 lingue i cui contenuti vengono sviluppati in collaborazione dagli utenti. I wiki infatti sono siti o pagine web che possono essere modificati direttamente dai propri utilizzatori.

Anche i blog consentono un elevato grado di partecipazione ed uno scambio informativo simmetrico. La pratica del web blogging risale ufficialmente al 1997, anche se la proliferazione dei blog più svariati in rete è un fenomeno più recente. Un blog è una sorta di diario digitale. L’utente (promotore) che pubblica un blog lo aggiorna continuamente, producendo nuovi contenuti, condividendo con quanti si trovino a passare dalla sua pagina i propri pensieri, la musica e i video preferiti e in definitiva, qualunque cosa gli passi per la testa. Fin qui niente di strano. Ciò che però differenzia sostanzialmente il blog dai tradizionali siti personali, è che laddove questi avevano una struttura chiusa e non consentivano quindi ai visitatori-recettori alcun tipo di interazione, i blog configurano un rapporto del tutto inedito con il pubblico che assume un ruolo fondamentale: può commentare i post esprimendo le proprie opinioni e quindi dar vita a un dialogo che genera ovviamente valore aggiunto. I post vengono commentati, i commenti generano altri commenti e così via. L’essenza del web blogging è tutta nello scambio, di idee, di opinioni. Tant’è che le potenzialità di questo nuova pratica non sono sfuggite all’attenzione dei quotidiani online. All’epoca del web 1.0, per le versioni digitali delle testate online, interattività significava soprattutto scambio di idee attraverso posta elettronica e forum. Il forum consentiva ai lettori di un quotidiano di scambiare le proprie opinioni in un’area a loro riservata, di conseguenza l’intrusione dei lettori nel prodotto giornalistico era tutto sommato limitata. L’avvento della filosofia 2.0 ha aperto la strada a nuove forme partecipative che alcuni dei quotidiani più avveduti hanno immediatamente saputo sfruttare. La prima di queste è stata per l’appunto il blog. Repubblica.it è stata fra le prime testate a trasformare in blog le rubriche presenti sul proprio sito, consentendo ai lettori di commentare i post pubblicati. Altre testate si sono spinte oltre: Gazzetta.it ha dato vita a Gazzettaspace, un social network sportivo che consente ai lettori di aprire una propria pagina personale, all’interno della quale pubblicare le proprie opinioni, commentare gli articoli dei redattori e caricare ogni tipo di contenuto multimediale.

Ma il Corrieredellasera.it è stato ancora più temerario. Forte della consapevolezza ormai acquisita che l’apporto dei lettori, se opportunamente valorizzato, può costituire davvero una risorsa garantendo contenuti aggiuntivi, Corrieredellasera.it ha consentito ai lettori, a differenza di Repubblica.it, di commentare direttamente gli articoli. In altre parole basta effettuare la registrazione, cliccare su una qualsiasi delle notizie presenti in copertina (home page), leggere l’articolo per intero e pubblicare il proprio commento subito sotto il testo, nello spazio Commentalanotizia – condividi le tue opinioni su Corriere.it. In tal modo il prodotto editoriale si apre al confronto con i lettori, che non sono più relegati ad esprimersi in via del tutto eccezionale negli spazi a loro dedicati come blog e rubriche. Il recettore dell’informazione contingente, tradizionalmente sacrificato a non poter direttamente confutare, smentire, dissentire pubblicamente da quanto letto, oggi, grazie alle potenzialità spiegate dalla rete, può a tutti gli effetti essere un soggetto dell’informazione al pari del soggetto promotore: può pubblicare la propria opinione, ma soprattutto, può farlo in maniera tempestiva, come vogliono le regole dell’informazione contingente.

Questa rapida panoramica dimostra come l’uso di uno strumento come internet, possa, se correttamente utilizzato, attenuare o addirittura abbattere molti dei limiti propri dell’informazione pubblicistica, limiti che di fatto vincolano soprattutto il soggetto recettore. Gli esempi forniti dalle testate online testimoniano non soltanto che, qualora ve ne fosse ancora il dubbio, i recettori sono tutt’altro che soggetti passivi, ma anche che l’informazione contingente può, attraverso le nuove tecnologie, facilitare uno scambio informativo più equilibrato, costruttivo ma soprattutto democratico.