Achille o Acilήos? Al buon comunicatore la scelta

Elaborato di Tecniche di Relazione – Professore Giuseppe Ragnetti

“Achille o Acilήos? Al buon comunicatore la scelta”

a cura di Emma Re Cecconi

E’ suonata già da qualche minuto la campanella di inizio lezione quando la professoressa di italiano entra nella I C di una scuola media .

Gli alunni sono ancora un po’ assonnati nel momento in cui la prof. prende la parola:

“Oggi leggeremo il proemio dell’Iliade”dice “chi mi vuole riassumere che cosa ho spiegato riguardo ai poemi epici?”

Una mano si alza dal primo banco vicino alla finestra, “Posso dirglielo io…” sussurra la voce di una ragazzina.

La prima metà della lezione passa con l’elenco delle nozioni esposte nei giorni precedenti dall’ insegnante che aveva spiegato che cosa si intende per epica, quali sono le sue caratteristiche e il linguaggio usato, per poi passare ad esaminare, in maniera generale, la questione omerica e l’antefatto che causò lo scoppio della guerra di Troia, che è il filo conduttore dei 24 canti dell’ Iliade.

La prof. , poi, prende la parola e incomincia a leggere ad alta voce il proemio dell’Iliade:

Canta, o dea, l’ira di Achille Pelide,

rovinosa, che infiniti dolori inflisse agli Achei,

gettò in preda all’Ade molte vite gagliarde

d’eroi, ne fece il bottino dei cani,

di tutti gli uccelli – consiglio di Zeus si compiva-

da quando prima si divisero contendendo

l’Atride signore d’eroi e Achille glorioso.”

La lettura desta stupore e un briciolo di incomprensione tra gli ascoltatori della classe che non riescono a comprendere il significato di alcuni termini ed è per questo che la prof, per far capire il passo appena letto, decide di parafrasarlo in parole più semplici, utilizzando dei sinonimi.

Canta, o dea, l’ira di Achille figlio di Peleo,

che ha avuto catastrofiche conseguenze, che infiniti dolori inflisse agli Achei,

gettò nel regno dei morti molte giovani vite,

d’eroi, che divennero il pasto di cani e uccelli- la volontà di Zeus si realizzava-

da quando si divisero, litigando l’uno con l’altro,

Agamennone, figlio di Atrèo, capo di eserciti, e il nobile Achille.”

Si può notare che è stato compiuto un procedimento di semplificazione, in cui tutte le parole più complesse sono state sostituite con sinonimi o perifrasi:

Pelide: figlio di Peleo;

rovinosa: che ha avuto catastrofiche conseguenze;

Ade: regno dei morti;

gagliarde: giovani;

uccelli:..cadaveri dati in pasto a cani e uccelli, cioè insepolti;

consiglio: la volontà;

contendendo:litigando l’uno con l’altro

Atride: figlio di Atrèo.

Nonostante questo sforzo di semplificazione, si alza una mano dai banchi dell’ultima fila:

“Mi scusi” esclama una chiara voce “ io non so cosa significa la parola catastrofica…”

“ Un fatto è catastrofico quando porta delle terribili, disastrose…brutte conseguenze…Hai capito, ora?”

ùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùù

Ù

ùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùùù

Il ragazzino annuisce, sembra che abbia afferrato il concetto.

L’insegnante capisce che l’unico modo per arrivare nella mente degli alunni è quello di avvicinarsi alla loro ottica e di spiegare i versi omerici con termini più vicini al loro patrimonio conoscitivo e usare anche, conoscendo le loro possibilità e facoltà recettive e la  passione per i fumetti, alcune simpatiche vignette.

 

E’ suonata già da qualche minuto la campanella di inizio lezione quando la più temuta professoressa dell’istituto entra nella I B di un Liceo Classico .

I ragazzi ancora non sono seduti, alcuni fanno un gruppetto intorno al banco in cui troneggia la “Gazzetta dello Sport”, altri sono raggomitolati vicino al termosifone e si raccontano il week-end appena trascorso.

“Ragazzi, mi sembra che la campanella sia suonata da qualche minuto. Perchè non siete seduti?” ruggisce la professoressa.

In un attimo la classe si compone, oggi ci sono proprio tutti, siede nel proprio banco, vicino alla porta, pure il “Tomma”, che come dicono i suoi amici, “ fa buca un giorno si e l’ altro…si”.

L’insegnante, chiamata confidenzialmente “Hitler” dai suoi amati alunni, ripercorre in maniera sintetica gli argomenti trattati nelle ultime settimane durante le interminabili ore di greco: la questione omerica, la struttura dei poemi omerici, il dialetto dell’epica, la tesi “eolica” e quella “ acheo-micenea”, la Kunstsprache, gli elementi di stratificazione linguistica, alcune nozioni di fonetica, di morfologia e di metrica.

Al termine della sua dissertazione sottolinea che tutti gli argomenti trattati, così come, il proemio dell’ Iliade che si appresterà a leggere, saranno oggetto di un compito in classe.

“Bene ora incomincio a leggere il proemio dell’ Iliade, che come tutto il poema, è scritto con l’esametro dattilico catalettico che è basato sull’alternanza di brevi e lunghe, nonchè sull’ isocronia, per la quale ad una lunga corrispondono due brevi.”

“La traduzione in italiano la guardate voi nelle note del libro, non ho niente da dirvi riguardo al contenuto che già ben sapete…Analizzeremo insieme la struttura e la metrica.”

Così la professoressa inizia a spiegare dinanzi alla sua numerosa classe che riesce bene ad afferrare le  nozioni perchè si inseriscono in un patrimonio conoscitivo già esperto a questo tipo di concetti.

La spiegazione subito si focalizza sulla posizione enfatica dell’accusativo μήνιν, posto all’inizio del primo verso e in dipendenza dell’imperativo presente άειδε forma non contratta di άειδw  per poi passare al vocativo θεά di origine eolica e alla forma del dativo -οισι, nel vocabolo οινοισί, più frequente in Omero rispetto al tradizionale e consuetudinario –οις.

L’insegnante continua a spiegare gesticolando le sue esili braccia e aggiustandosi di frequente il solito ciuffo di capelli che non trova mai una stabile posizione : conoscendo le possibilità e le facoltà ricettive dei suoi scolari sotto i più diversi aspetti, adegua il  suo modo di spiegare per essere percepita nella maniera più esatta possibile.

Questi due semplici esempi esprimono in maniera molto chiara che non può esistere una comunicazione sempre valida e applicabile a qualunque recettore, ma che esiste una relazione comunicativa tarata su di esso.

Fu Francesco Fattorello, il primo in Italia a formulare una teoria sull’informazione e la comunicazione fondata su rigorose basi scientifiche, che prende il nome di Tecnica Sociale dell’ Informazione.

Esiste, dunque, un modo di interpretare i fatti oggetto di un rendiconto in base a un determinato soggetto recettore, che assume una valenza attiva pari a quella del soggetto promotore, interagendo sempre e comunque con chi innesca la comunicazione.

Il fenomeno dell’informazione si concretizza attraverso un rapporto che mette in gioco più termini: l’oggetto del processo di informazione, un soggetto promotore e uno recettore, lo strumento che serve a saldare il loro rapporto e il contenuto, ossia la forma di ciò che è oggetto del rapporto di informazione.

Questi aspetti fondamentali possono essere schematizzati da una formula ideografica:

x)

                               M

Sp                                                        Sr

                               O

Sp è il soggetto promotore che dà avvio all’informazione; Sr è il soggetto recettore; M  è il mezzo tramite il quale si salda il rapporto; ed infine O è la fomula data a x), l’oggetto dell’ informazione.

Sp e Sr sono i principali componenti dell’informazione: il primo trasmette la forma che ha attribuito a ciò che ha interpretato e con la quale cerca di rappresentare agli altri un determinato fatto o ideologia; il secondo non si limita soltanto a ricevere quella forma, ma la interpreta a sua volta.

E’ norma fondamentale per il soggetto promotore, al fine di mettere in atto un proficuo rapporto di informazione, conoscere i fattori di acculturazione del recettore, infatti solo così potrà adeguarsi a lui. Adeguarsi, ma non rinunciare al suo scopo e a quella iniziativa sulla quale si era proposto di ottenere una conforme adesione di opinione.

Fondamentale è, poi, la scelta del mezzo perchè ogni strumento possiede un proprio linguaggio ed è legato ad esso il tipo di recettore a cui ci si rivolge.

In base a questo schema possiamo analizzare gli esempi esposti nelle pagine precedenti.

L’oggetto della comunicazione, in entrambi i casi, è il proemio dell’ Iliade di Omero.

Primo caso

x) : proemio dell’Iliade

Sp: professoressa di una scuola media

Sr: una classe di prima media

O: formula data da Sp a x)

M: lingua parlata; uso di vignette.

L’insegnante utilizza, per farsi comprendere, uno strumento molto vicino al linguaggio dei suoi alunni: quello dei fumetti. Le persone adulte non capiscono il linguaggio delle vignette che tanto piacciono ai più piccoli: questo mezzo è dotato di una specificità del linguaggio fatta propria dai “recettori bambini” e non dai “ recettori adulti”.

Il docente si cala nello stesso ambito culturale dei soggetti recettori e cerca di venire a conoscenza dei motivi culturali che possono ispirare il loro comportamento.

Secondo caso

x) : proemio dell’Iliade

Sp: professoressa del liceo classico

Sr: una classe del terzo anno del liceo classico

O: formula data da Sp a x)

M: lingua parlata; uso della lingua greca.

Si può notare che la materia che è oggetto del processo di informazione, è uguale in entrambi i casi ma il modo di esporre il rendiconto dei fatti è diverso in base alle persone a cui è indirizzato.

Per essere recettore, è fondamentale, la sua socializzazione allo stesso ambito culturale del soggetto promotore: dove mancasse una tale corrispondenza culturale, il rapporto di informazione non avrebbe l’effetto voluto, il contenuto non potrebbe essere ricevuto o capito, oppure sarebbe capito male e, comunque, con difficoltà rilevanti.

Questo caso si sarebbe verificato se l’insegnante di scuola media avesse spiegato il proemio dell’ iliade in lingua greca con al seguito  nozioni sulla sintassi, fonetica e metrica.

Il contenuto sarebbe stato ricevuto dagli alunni-recettori?

Ovviamente no, a differenza degli alunni- ricettori del liceo classico che, in base alle loro facoltà percettive, capiscono il contenuto.

Il soggetto recettore obbliga quindi il promotore, che vuole trasmettergli nella maniera più efficace un messaggio, alla conoscenza delle sue possibilità e facoltà recettive sotto i diversi aspetti, condiziona l’elaborazione dei messaggi che gli devono essere adeguati, altrimenti non saranno percepiti e condiziona la scelta dello strumento. La bravura del soggetto recettore sta nel trasmettere il messsaggio nel modo più vicino possibile al suo recettore.

Il processo di informazione può essere contingente e non contingente:il primo è caratterizzato dalla rapidità e dalla limitatezza del lasso di tempo, entro il quale si deve concretare il rapporto tra i soggetti interessati; il secondo è molto più lento e alla ricerca di una adesione non immediata e tempestiva.

Il rapporto insegnante e alunno è tipico per indicare un processo di informazione non contingente: il professore impiega molto tempo per informare il suo alunno e ciò che gli spiegherà gli servirà per domani e per sempre, non è tanto correlato al momento presente, quanto alle esigenze alla cui cultura, il soggetto recettore deve essere educato.

Il recettore, in questo caso, è un gruppo caratterizzato da una certa omogeneità di età e, talvolta, di integrazione culturale che partecipa in maniera attiva: l’alunno pone domande, obiezioni al maestro e sottopone alla sua considerazione nuove idee.

La Tecnica sociale dell’ Informazione si basa sul presupposto che la comunicazione non è un processo definito, ma è in continua evoluzione, perchè semplicemente le persone sono diverse le une dalle altre e per questo è necessario utilizzare molteplici linguaggi e strumenti.

É fondamentale, quindi, la conoscenza del soggetto recettore che si ha di fronte perchè non c’è la possibilità di stabilire un dialogo se pensiamo solo con la nostra mente e in base alla nostra acculturazione o esperienza di vita.

Il Fattorello 2.0 – Opinioni opinabili nel Web di seconda generazione

Laurea Specialistica in Editoria Media Giornalismo – Università degli Studi “Carlo Bo” Urbino – Elaborato per “Tecniche di Relazione” – Prof. Giuseppe Ragnetti

“Il Fattorello 2.0 – Opinioni opinabili nel Web di seconda generazione”

a cura di Giuditta Avellina

Web 2.0, termine coniato da Tim O’Reilly e Dale Dougherty, rappresenta una nuova visione del web che si riferisce alle tecnologie di Internet che permettono ai dati di diventare indipendenti dalla persona che li produce o dal sito in cui vengono creati: l’informazione può essere suddivisa in unità che viaggiano liberamente da un sito all’altro, spesso in modi che il produttore non aveva previsto o inteso.

Una rivoluzione del concetto di opinione dominante, in puro stile fattorelliano: il paradigma del Web 2.0 permette agli utenti di prendere informazioni da diversi siti simultanemente e di distribuirle sui propri siti per nuovi scopi, aumentando la moltiplicabilità e la soggettività dell’opinione.

Ma qual è  il valore del web 2.0 in rapporto al concetto esteso di opinione?

– Potenzia la rete minore, ossia permette agli utenti non interessati ai grandi circuiti industriali bensì a prodotti meno commerciali, di trovarli ed acquistarli in rete. Amazon ed eBay hanno usato quest’idea per costruire società che valgono miliardi su miliardi.

Piccoli Pezzi, Slegati. Il monoblocco non esiste più. Non è agile. Quello che si è costruito non si può aggregare: è la somma delle singole opinioni a generare la totalità.

Self Service e Partecipazione. Ogni utente fornisce la propria opinione e partecipa alla modifica di quella altrui.

Decentralizzazione. Le singole fonti di funzioni sono singole fonti di fallimento ed oggi sono inaccettabili poiché non forniscono nè la distribuzione nè il ritrovamento di contenuti di valore significativo; invece, l’opinione, grazie al web 2.0, non parte da un centro ma dagli stimoli multilaterali delle parti.

Insomma, è un nuovo modo di intendere la Rete, che pone al centro i contenuti, le informazioni, l’interazione sulla rete globale che oltre ai computer, comprende altre periferiche quali il cellulare, la televisione, la radio, che possono interagire tra loro utilizzando le nuove tecnologie di condivisione, all’insegna della collaborazione, dell’interazione sociale realizzata grazie alla tecnologia.

I servizi e gli strumenti del Web 2.0 trasformano ogni utente da consumatore a partecipante, da utilizzatore passivo ad autore attivo di contenuti, messi a disposizione di chiunque si affacci su Internet, indipendentemente dal dispositivo che utilizza e dall’ambiente sociale in cui opera.

Gli stimoli diventano migliaia per un utente, e tra questi: cosa fa nella vita, il sesso/età, l’ambiente sociale, il linguaggio, lo stato economico,attività odiate/amate, modo di comportarsi, rapporti con altri, obiettivi della sua vita, punti di forza/debolezza.

Queste e mille altre variabili determineranno la crescita dell’utente navigatore del web: il suo orizzonte “virtuale”, sollecitato da tali stimoli, comincerà ad allargarsi e ad adottare norme sociali intorno a valori ed interessi che contribuiranno a formare le sue intenzioni personali. La matura navigazione sul web, gli consentirà di fortificare le proprie opinioni personali e gli darà altresì la possibilità, con tali opinioni, di agire a sua volta sull’ambiente sociale che lo ha formato (seppur, ovviamente, in virtuale).

In pratica:

AMBIENTE SOC. –> AGISCE SULL’UOMO —>

L’UOMO DIVIENE UTENTE

UTENTE —————————> AGISCE SUL WEB

Come si può chiaramente notare, il processo di condizionamento possiede una propria circolarità, nonostante l’ambiente sociale risulti più forte nel condizionare la personalità dell’individuo.

Le variabili sopra elencate (ambiente sociale,stato economico,ecc.) riusciranno a dispiegare la loro forza grazie a un processo mentale agevolato dall’educazione (che agisce attraverso attitudini) e dall’intelligenza (che genera un pensiero più personale) che consentirà all’utente una affiliazione alla community sul web.

L’affiliazione sarà confermata dall’adozione di dati stereotipi (il multilinguaggio del web 2.0), elementi preponderanti per sentirsi in armonia sociale: l’opinione espressa dall’utente sarà in armonia con gli stereotipi della community virtuale. 

Le communities virtuali sono generate da applicazioni, e le più diffuse del Web 2.0 sono: blog, social network, podcasting, bookmarking,wiki, ecc.

Tutte permettono la partecipazione nonché la diffusione di ciò che viene prodotto all’interno delle comunità interattive di fruitori/autori di contenuti.

Le materie e gli argomenti trattati spaziano lungo tutti i campi del sapere, rendendo ogni informazione immediatamente visibile e rielaborabile per qualsiasi media.

Può capitare che un articolo apparso su un quotidiano online sia commentato su un blog, per poi essere arricchito dall’aggiunta di contenuti audio e video, essere condiviso all’interno di una comunità, diventando a ogni passaggio sempre più approfondito e “popolare”.

La notizia, è insomma fonte e prodotto della non obiettività, essendo formata dalla somma di più opinioni e formandosi in un vero e proprio luogo di incontro, discussione e condivisione di argomenti e contenuti, disponibili come testo, immagini, audio e video.

Col Web 2.0 nascerà una visione del web in cui l’informazione viene spezzettata in unità di “microcontenuti” che possono essere distribuiti su dozzine di domini: Internet come la summa delle capacità tecnologiche raggiunte dall’uomo nell’ambito della diffusione dell’informazione e della condivisione del sapere.

Scorrendo l’elenco delle soluzioni Web 2.0 troviamo i wiki, l’espressione più democratica della diffusione della conoscenza attraverso la tecnologia.

La logica che muove e sviluppa i wiki è la partecipazione degli utenti a un obiettivo comune, come la realizzazione della più grande enciclopedia mondiale, la “Wikipedia“, o la creazione di un glossario informatico, o di una knowledge base dedicata a un argomento specifico.

Il metodo di lavoro è in questo caso l’elemento innovatore; chiunque può aggiungere o modificare il contenuto (testo, immagini e video) presente in un wiki. Ecco perché si può affermare che la partecipazione libera del singolo produce un bene culturale comune, fruibile da tutti gratuitamente.

Non si possono non menzionare i social network, o reti sociali, che consistono in gruppi di persone, con vincoli familiari e non, con passioni e interessi comuni, intenzionati a condividere pensieri e conoscenze. Si trovano online comunità di persone che condividono i link ai siti che ritengono interessanti, oppure alle proprie foto o video, come anche poesie, o anche resoconti di eventi cui hanno partecipato. Persone che hanno la capacità e la voglia di distribuire contenuti multimediali relativi ai propri interessi. Questi gruppi si rivelano spesso una preziosa fonte di informazioni e al contempo divulgatori specializzati in argomenti di nicchia.

Nel rapporto con l’altro, l’internauta proviene da varie esperienze di socializzazione e di acculturazione che lo hanno accompagnato durante tutta la sua vita: l’insieme di circostanze, credenze, valori ed eventi che lo hanno reso “sociale” avranno avuto modo di scontrarsi con miriadi di formule d’opinione, ossia opinioni propostegli da un ipotetico ”altro”.

E’ chiaro come egli, in parte, sarà contagiato dal gruppo d’interesse sul web, che contribuirà alla formazione delle sue attitudini sociali, ossia quel complesso sistema di rappresentazioni, ricordi, sentimenti, che è possibile sintetizzare nelle seguenti categorie:

  1. sentimenti collettivi
  2. ideali collettivi, atti a definire macroconcetti quali il bene,il male,ecc.
  3. idee, credenze, visioni del mondo

Che contribuiranno a definire l’utente quale membro sociale di “quel dato gruppo” e a farlo agire nei processi di opinione.

La cultura, bagaglio di conoscenze che ogni individuo eredita dal sociale, sarà un altro fattore primario che determinerà l’acculturazione dell’utente, ossia quel complesso processo di socializzazione (intesa come integrazione in società) e di assimilazione di credenze, tendenze e valori  provenienti dalla società medesima: insomma, una definizione molto vicina a quella di social network.

Condizionato da questa miscela esplosiva di acculturazione e attitudini sociali, l’utente deciderà se aderire o meno alle formule propostegli e in caso di esito positivo, si dirà che egli avrà dato la propria adesione d’opinione a un contenuto, scaricabile per scopo commerciale o per la libera circolazione del pensiero.

Se si verifica un’adesione a scopo commerciale si pensa immediatamente alla vendita di pubblicità o di servizi professionali su Internet, ma non vanno trascurate la visibilità e la credibilità che un’azienda può acquisire aprendo il proprio blog, o partecipando a comunità di nicchia i cui interessi coincidono con i prodotti offerti. Per non parlare dei vantaggi nel campo delle relazioni pubbliche e della comunicazione d’impresa: “io commerciante aderisco a una community virtuale per lavorare bene e farlo sapere a tutti”. E cosa c’è di meglio di un blog, o un wiki, o una community, per farlo sapere a tutti?

L’adesione a scopo libera circolazione del pensiero, possiede altrettanti importanti obiettivi:

  1. il contenuto cui si aderisce sarà completamente svincolato dalla sua rappresentazione;
  2. l’adesione genererà giudizi d’opinione che verranno aggregati e riaggregati secondo i bisogni degli utenti e saranno fruibile su diverse piattaforme di distribuzione;
  3. oltre alla capacità di comunicare in nuovi ambienti le proprie opinioni, si dovrà anche imparare a gestire nuove dinamiche relazionali (es.peer to peer) ;
  4. la comunicazione diverrà sempre più flessibile e adattata ai contesti ed ai comportamenti di fruizione, contro la presunta obiettività dei massimi poteri;
  5. si assisterà ad un aumento di nuovi contenuti creati oltre che a diverse nuove modalità di ricombinazione di vecchi contenuti che renderanno obsoleti i tradizionali concetti di protezione dei diritti e di digital right management.

Web 2.0 è la nuova democrazia, che permette a tutti di avere un opinione e, pur lasciando ai dati una loro identità propria, tale identità può essere cambiata, modificata o remixata da chiunque per uno scopo preciso.

Una volta che i dati hanno un’identità, la rete si sposta da un insieme di siti web ad una vera rete di siti in grado di interagire ed elaborare le informazioni collettivamente.

L’adesione da parte dell’utente a una data formula d’opinione proposta dalla community, ovviamente dipenderà dalla netta dominanza di alcuni fattori di conformità con cui egli possa agevolmente identificarsi, ossia quei fattori-chiave che serviranno da collante e polarizzeranno in un dato senso il rapporto promotore/recettore.

Infatti l’opinione proposta verrà passata al vaglio, misurandone attivamente(e non in modalità passiva!)la coerenza con la propria scala di valori e se e soltanto se essa coinciderà con i propri fattori di conformità, le si darà valida adesione.

Tra i fattori di conformità (e ve ne sono parecchi!), che polarizzeranno il singolo/il gruppo verso l’adesione a una data opinione, ricordiamo:

  • La ragione vs la superstizione (determineranno una maggiore/minore ragionevolezza da parte dell’individuo nell’aderire a date formule d’opinione)
  • I valori, ossia quell’insieme di contenuti cristallizzati nell’individuo che instabilmente vengono adottati/scartati dai gruppi sociali e che possiamo suddividere in:
    1. valori particolari (legati al rapporto tra valori tra singoli e valori generali)
    2. valori generali (legati al rapporto tra gruppi più vasti)
    3. valori assoluti (legati a un bene comune e pseudo-indiscutibile)
  • Il comune interesse (capace di generare comunità d’opinioni)
  • L’opinione della maggioranza, legata di volta in volta a diversi Sp
  • Gli stereotipi

L’utente si immerge totalmente nel sociale categorizzandolo in maniera contingente e distinguendo le aree di appartenenza predominanti all’interno del gruppo: l’ambiente sociale con cui si relazionerà causerà in lui curiosità e, di conseguenza, dubbi circa l’opinione da dare su una determinata circostanza (il dubbio negativo genererà ignoranza, quello positivo, incertezza).

L’insopportabile malessere provocato dal dubbio, lo costringerà a ricercare la ‘presunta’ verità ritenuta più plausibile e ad essa affiderà il proprio giudizio d’opinione per uscire dallo stato di insoddisfazione; tale opinione non sarà mai fine a sé o esaurita nella sua stessa essenza, ma avrà caratteristiche di contingenza che doneranno un momentaneo stato di quiete. Certo, dare forma e comunicazione al messaggio da veicolare implica una tecnica ben precisa, la tecnica sociale fattorelliana.

x)

                                   M

Sp                                                                 Sr

                                   O    

  • Sp, ossia il Soggetto Promotore,in questo caso rappresentato dall’utente;
  • Sr, ossia il Soggetto Recettore, in questo caso rappresentato dalla community;
  • X), ossia l’argomento vero e proprio oggetto del rapporto tra le parti, che però viene tenuto fuori dalla comunicazione tra le parti;
  • O, ossia la maniera in cui l’utente “confeziona”l’argomento per ottenerne l’adesione di opinione da parte della community;
  • M, ossia il mezzo con cui l’utente si rivolge alla community per ottenerne l’adesione d’opinione (es.blog, gruppi di discussione, myspace,ecc.).

Cosa cambia per le imprese sul web, con l’applicazione della tecnica sociale connessa alle innovazioni del web 2.0?

Web 2.0, per le net-companies, significa un diverso modo di approcciare la Rete. Utilizzare la molteplicità di opinione, per l’azienda, significa incoraggiare i contributi degli utenti, rendendo il sito web il più interattivo possibile, mediante recensioni e commenti: un utente, sempre più “smaliziato”, sempre più protagonista, che desidera assolutamente dire la sua.

E cosa cambia per gli utenti?

Web 2.0 è opinione dell’utente nonché sinonimo di intelligenza collettiva e network relazionale: la popolarità di un sito web o di un blog non è determinata solamente dal budget pubblicitario on line e off line stabilito da un’azienda. Se un sito web fornisce dei contenuti di qualità e/o di un certo interesse, suscita immediatamente la reazione positiva degli internauti. Si creerà così un effetto “passaparola” e il sito sarà linkato.

Ma l’opinione resterà modificabile. All’infinito.

Web 2.0 e la Tecnica Sociale dell’Informazione

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI “CARLO BO” – URBINO – Corso di Laurea specialistica in Editoria Media Giornalismo – TECNICHE DI RELAZIONE – Prof. Giuseppe Ragnetti

“Web 2.0 e la Tecnica Sociale dell’Informazione”

a cura di Mirko Chiappinelli

Sono passati ormai sette mesi da quando la mia attenzione di studente si soffermò su un fenomeno molto affascinante, una “evoluzione” per dirla come gli informatici, ovvero il secondo paradigma del Web. Questo argomento fu oggetto della mia tesi di laurea nel Luglio dello scorso anno e quello che mi colpì fu l’ampia letteratura dedicata alle funzioni sociali delle nuove proprietà del World Wide Web, inteso come strumento con il quale tutti gli utenti di questo mondo globalizzato si interfacciano alla Rete mondiale di Internet.

L’evoluzione sta nel fatto che le aziende leader del settore, le applicazioni e i siti web del momento sono accumunate dall’utilizzo di tecnologie e software che enfatizzano la collaborazione e la partecipazione collettiva degli utenti, cioè favoriscono quei processi sociali di comunicazione o “messa in comune” di individui con interessi, passioni, valori, credenze e attitudini comuni. Durante le lezioni del Prof. Ragnetti notai immediatamente una connessione tra il fenomeno sociale dell’informazione e la ragnatela sociale, creatasi grazie al Web 2.0, presente on-line.

A questo proposito è importante fare una precisazione: comunicare non è sinonimo di informare, ma ha un significato generico ed estensivo con il quale s’identifica il “mettere in comune”, mentre l’informazione ha a che fare con l’opinione e le intenzioni degli individui. Il fenomeno dell’informazione prende vita quando un soggetto promotore trasmette la sua opinione, anzi “da forma” alla sua opinione e la trasmette ad un soggetto recettore attraverso un determinato strumento di “messa in comunanza”. Il contenuto del rapporto d’informazione è la forma dell’oggetto del rapporto stesso e non è mai l’oggetto vero e proprio in virtù della soggettività di qualsiasi individuo.

x)

                       M

Sp                                           Sr

                       O

Sp è il soggetto promotore che ha l’iniziativa dell’informazione; Sr è il soggetto recettore; M è il mezzo utilizzato che veicola l’informazione;O indica la forma dell’oggetto d’informazione e quindi l’opinione; il punto x) rappresenta il motivo, la materia, l’intenzione ed è tra parentesi perché resta fuori dal processo. I due soggetti sono entrambi opinanti: il primo elabora una forma con la quale rappresentare agli altri quella cosa, quella ideologia o quell’opinione; il secondo non si limita a ricevere quella forma, ma la interpreta a sua volta e si fa promotore verso altri recettori della sua personale interpretazione.

Questo fenomeno non ha un inizio ed una fine come mostra la formula ideografica precedente ma è un istante del continuo articolarsi dei rapporti sociali, tramite i quali si rinnova continuamente la società. Perciò nel contesto sociale la formula sarà estesa in questo modo:

              M                       M                        M                        M

Sp                 Sr/Sp                 Sr/Sp                 Sr/Sp                 Sr/Sp

              O                        O                        O                        O

Il soggetto recettore di un rapporto diventa promotore nel successivo anello della catena che si sviluppa all’interno della complessa ed infinita ragnatela di rapporti sociali.

A questo punto del ragionamento sembra chiara la motivazione che accomuna il contesto sociale “reale” al contesto sociale “internettiano”: vediamo alcune caratteristiche di quest’ultimo e compariamole con i termini del fenomeno sociale dell’informazione e successivamente descriveremo le affinità del processo di formazione dell’opinione pubblica in società  e di quello in Rete.

Il Web 2.0 e la sua nuova cultura della condivisione aperta hanno favorito lo sviluppo della partecipazione dei singoli individui in una community sociale che crea contenuti online.

L’insieme della moltitudine delle piccole partecipazioni contribuisce al successo dei software sociali, ovvero quei sistemi online che realizzano vere e proprie reti sociali fruttando lo spirito di appartenenza dei gruppi di individui con interessi, opinioni e credenze comuni. Il Web 2.0 si presenta, in questo senso, come una grande conversazione in Rete tra tutti gli utenti del pianeta. Il sistema che permette la reale creazione di una rete sociale nel Web è l’Architettura di Partecipazione, ovvero l’insieme di quelle entità (aziende, progetti, network) che sono incentrate sulla cultura open (come l’open source che si propone di creare software a sorgente aperta, cioè senza diritti di tutela, per permettere a tutti gli utenti del mondo di modificarlo e di migliorarlo in virtù della convinzione che più persone ci lavorano sopra e più il risultato sarà qualitativamente alto) e di partecipazione, favorendo la cooperazione tra tutti gli utenti che sono coinvolti in una community sociale online.

Wikipedia rappresenta in pieno una rete sociale che grazie alla somma dei contenuti generati da qualsiasi individuo ha creato la migliore enciclopedia in rete, o per lo meno quella con più “voci” generate, considerando che comunque la qualità delle stesse non può essere di valore assoluto. Quindi possiamo definire un’architettura partecipativa come un sistema basato su principi democratici (la voce “Foggia” è stata creata perché la maggioranza degli utenti di wikipedia l’ha identificata con “una città della regione Puglia”) dove l’utente può aggiungere contenuti e al cui interno sia presente una Human Network basata su software sociali che mettono in comunicazione gli utenti stessi.

Questo contesto non è molto diverso da quello della vita in società dove la formazione dell’opinione pubblica viene favorita dalle dinamiche inerenti i soggetti del fenomeno sociale dell’informazione dove il promotore, o gruppo di promotori, cerca l’adesione di opinione di un recettore, o gruppo di recettori, attraverso un mezzo (software sociali in Internet) per giungere, grazie ai fattori di conformità, ad una opinione maggioritaria, ovvero l’opinione pubblica, riguardo un determinato oggetto (Foggia in wikipedia) in un determinato momento.

Se in un ipotetico referendum nazionale un gruppo di individui dovrà aderire all’opinione del partito del “si” o di quello del “no” tenendo presente le proprie attitudini, credenze e valori, i politici dovranno cercare di agire, per ottenere l’adesione al loro partito tramite la tecnica sociale dell’informazione, nel modo più vicino possibile ai loro interessi, e se il risultato del referendum dirà che ci sono tre gruppi e cioè uno del si, maggioritario (distribuzione delle opinioni conformata), uno del no e uno degli astensionisti, minoritari; si può, quindi, affermare che l’opinione pubblica sull’oggetto del referendum è conformata verso il si.

E Se immaginiamo che all’interno della ragnatela di Internet, nello specifico nella blogosfera, ovvero il mondo dei blog dove i blogger pubblicano dei “post” giornalmente su questioni inerenti tutte le sfere della cosa pubblica e non, un argomento contingente viene cliccato maggiormente dai lettori del Web e questo argomento è l’eutanasia, possiamo, allora, aspettarci una clima d’opinione di questo tipo: la maggioranza dei “click” dei lettori riguarda articoli o post a favore dell’eutanasia e ciò costituisce l’opinione dominante degli utenti del Web riproponendo un processo, quello della formalizzazione dell’opinione pubblica, che domina la reale ragnatela di rapporti: la società.

L’uomo se isolato non è in grado di esprimere un’opinione individuale, né tantomeno una pubblica. Per poterlo fare ha bisogno di un insieme d’individui che opinano con lui e che siano legati tra loro dagli stessi interessi. E’ il gruppo a generare la formazione dell’opinione pubblica in quanto i suoi membri sono accomunati da stessi valori e interessi che permettono a loro stessi di tendere verso un’opinione simile e di differenziarsi da chi non ha gli stessi interessi.

Per Jean Stoetzel sulla determinazione delle opinioni di un individuo influiscono molte determinanti esterne come l’ambiente sociale dove si cresce fin da bambini, lo stato economico, il luogo, l’ambiente familiare, le amicizie, l’ambito professionale, l’educazione, l’intelligenza e tutte queste determinanti influiscono sugli impulsi originali ed autonomi di ciascuno di noi. Tutto ciò fa si che si creino dei gruppi in società, tutti noi apparteniamo a dei gruppi e siamo estranei ad altri, e ne conseguono i sentimenti di amicizia e di rivalità che si instaurano tra i vari gruppi.

L’affiliazione al gruppo s’identifica con l’adozione degli stereotipi per uniformarsi in armonia con il gruppo. Quindi, secondo Stoetzel, l’individuo si forma socialmente attraverso questo complesso di attitudini personali che condizioneranno i processi d’opinione. In pratica, direi ironicamente, il filosofo francese ha anticipato di qualche decina di anni i principi fondamentali secondo i quali le aziende leader del settore di Internet hanno realizzato tutti i Social Network, sistemi basati sui “profili” personali degli utenti/individui, basati sulla suddivisione in gruppi di discussione, di valori, di interessi, gruppi professionali, e dove la distribuzione delle opinioni individuali di un gruppo crea delle “opinioni di gruppo” nell’accezione di Stoetzel.

I Blog sono nati come pagine personali e diari di personaggi che volevano dare sfogo al proprio narcisismo, ma in breve tempo sono diventati veri e propri mezzi, anche e spesso usati dai giornalisti, per comunicare, anzi per informare su un determinato “oggetto” in un determinato momento, e quindi opinare.

D’altra parte i frequentatori del Web, sempre più numerosi, in quanto lettori-recettori si trovano a dover accettare o a respingere l’adesione di quella opinione. Se, come dice Stoetzel, “opinare significa per il soggetto porsi socialmente in rapporto con il suo gruppo e con gli altri gruppi esterni” allora possiamo dire che aveva ragione Luca Grivet Foiaia quando affermava, nel suo ultimo libro dedicato al Web 2.0, che “Con il processo di conversazione dei blog, si crea sulla Rete qualcosa si simile alla formalizzazione dell’opinione pubblica”.

Come la tecnica sociale dell’informazione ha riportato l’attenzione sul ruolo attivo nei processi relazionali sia del promotore che del recettore, smentendo tutte quelle teorie che ostinatamente attribuivano ampi poteri di persuasione e manipolazione dei media nei confronti di un “pubblico” impotente; così il Web 2.0 grazie alla bi-direzionalità inerente alla generazione dei contenuti, ovvero il paradigma read/write secondo il quale tutti gli utenti hanno la possibilità di essere fruitori e creatori di contenuti diventando attivi grazie alla “piattaforma di partecipazione” di Internet.

La circolarità è una caratteristica dei processi relazionali della nostra società ed è il principio cardine delle nuove tecnologie applicate alla comunicazione, mentre la pari dignità dei soggetti “promotore e recettore” rappresenta né più né meno il doppio ruolo degli utenti del Web 2.0 in quanto generatori di contenuti e fruitori di contenuti.

Se la Rete venisse considerata come un sistema di comunicazione per le persone e il computer come amplificatore della mente umana (“dar forma”), si può assolutamente definire la ragnatela globale online come un mezzo che favorisce l’interconnessione delle menti pensanti e opinanti degli utenti (soggetti “promotore e recettore”) all’interno di un ambiente che dal filosofo francese Pierre Lèvy fu definito il cyberspazio (opinione pubblica), cioè l’ambiente di comunicazione dei gruppi umani (gruppi di opinione). 

In ultima analisi vorrei sottolineare ancora una volta l’affinità tra la rivalutazione della dignità dei soggetti che rappresentano i termini della tecnica sociale dell’informazione che grazie al Prof. Francesco Fattorello ne ha rivalutato le capacità nel processo che li relaziona nella società, e la rivalutazione delle persone comuni come agenti attivi nell’era dell’informazione grazie agli strumenti che Internet ha messo a disposizione di tutti; quest’affinità è rappresentata dalla prima pagina di “TIME” del 13 dicembre 2006 quando la rivista assegnò il consueto titolo di “Person of the year” e sulla copertina apparì un computer con un generico “YOU” sullo schermo, e sotto questo mero strumento tecnologico un testo chiariva: “Si, tu. Tu controlli l’era dell’informazione. Benvenuto nel tuo mondo.”

Il diavolo, Francesco Fattorello e Jean Stoetzel vestono “Prada”

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI “CARLO BO” URBINO – Corso di Laurea specialistica in EDITORIA MEDIA GIORNALISMO – Esame di Tecniche di relazione – Prof. Giuseppe Ragnetti

Il diavolo, Francesco Fattorello e Jean Stoetzel vestono “Prada”

Lavoro a cura di Martina Zelco

Al titolo “Il diavolo veste Prada”  alla maggior parte della gente verrà in mente il  film di David Frankel ma, non tutti sapranno che, alla base di questa pellicola di risonanza mondiale c’è il romanzo, dal medesimo titolo, dell’autrice statunitense Lauren Weisberger. Prima di diventare un’affermata scrittrice tradotta in tutto il mondo, la giovane Weisberger ha iniziato a lavorare, proprio come la protagonista del suo bestseller come giornalista: appena laureata ha infatti trovato un impiego come assistente della dirigente di una importante rivista di moda, Anna Wintour di ‘Vogue’ (tra l’altro citata anche nelle ultime pagine del romanzo), ritratta poi nel suo libro col nome di Miranda Priestly, della fittizia rivista ‘Runway’. Andrea, l’alter-ego della scrittrice, accantona il suo obiettivo di diventare una giornalista del ‘New Yorker’ quando le viene fatta la proposta di lavoro in questo giornale, posto che nessuna neolaureata può rifiutare in quanto, dopo solo un anno di gavetta, si è certi di poter arrivare dove si vuole grazie alla potenza e alle conoscenze di questo guru della moda.

Siamo nella colorata e caotica New York, città per eccellenza della moda e del glamour. Andrea è una giovane neolaureata in lettere che cerca disperatamente lavoro. Nonostante il suo curriculum di tutto rispetto l’unico lavoro che le viene offerto è come assistente in una rivista di moda: Runway. Alla ventitreenne, in realtà, questo mondo non interessa ma, sa che entrando in una rivista di così grande portata le si potrebbero aprire molte strade nel mondo del giornalismo.

Andrea non è frivola, è la tipica ragazza seria “della porta accanto” con degli amici con dei lavori umili ed un cuoco come fidanzato. A capo della rivista in cui è stata presa c’è la crudele Miranda Priestly. Lei, esattamente come la sua rivista, sono impeccabili in ogni particolare. Miranda è la donna più potente nel settore della moda,  e basta un minino errore per perdere il lavoro nella sua azienda. Miranda è classe, eleganza e perfezione, Andrea è semplicità, “goffaggine” e sbadataggine. Eppure lavoreranno assieme.

Miranda si rivela essere il più spietato e crudele dei capi e caccia Andrea in situazioni scomode, che risultano poi divertenti, e cerca di piegarla al suo volere e di plasmarla a sua immagine fino a quasi rovinarle la vita. Essere l’assistente personale di Miranda significa: girare in limousine per cercare un antiquario fantasma in tutta New York, scartare e catalogare centinaia di regali di Natale, lasciare a casa il fidanzato per andare a una festa di vip, spedire una gonna a Santo Domingo senza sapere quale, imparare a memoria tutti gli invitati della settimana della moda di Parigi e mandare oltreoceano una copia dell’ ultimo  Harry Potter, la sera prima dell’uscita ufficiale. Senza contare una serie infinita di assurde richieste quotidiane, che arrivano ad ogni ora del giorno e della notte. Il “gioco” è duro ma per Andrea si tratta solo di stringere i denti per un anno senza lasciarsi trasportare esageratamente dal mondo della moda. Con il passare dei mesi, però, il non lasciarsi trasportare non risulta così semplice.

Se all’inizio la neolaureata guardava quasi con disprezzo il mondo di passerelle e lustrini ora l’ammirazione per il talento di Miranda e l’attrazione verso accostamenti, accessori di lusso e scarpe firmate prendono il sopravvento su di lei, innescando un processo di trasformazione radicale del look, del guardaroba e del modo di rapportarsi con il suo lavoro. Andrea sembra quasi dimenticarsi delle sue radici e comincia a prendere più consapevolezza di se e ad acquisire quella perfezione ed efficienza lavorativa che erano esclusivi del suo capo.

La prima lezione che Andy impara è che l’industria della moda, che lei guarda con intellettuale disprezzo, è meno superficiale di come si immagini, dietro a quello che vediamo sulle passerelle o sulle copertine delle riviste, c’è il duro lavoro di migliaia di persone. La nostra assistente impara inoltre molte cose sull’ambizione e la sulla carriera, e quale prezzo si è disposti a pagare pur di raggiungere il successo: sacrificare famiglia, amore e valori vale il raggiungimento di un obiettivo professionale?

Miranda, quasi a conclusione dell’anno di lavoro, sceglierà proprio Andrea per accompagnarla all’ambita settimana della moda di Parigi dove si “guadagnerà” un possibile avanzamento di carriera. La giovane assistente si trova così davanti ad una scelta: cercare di ricostruire la sua vita sentimentale e relazionale o avanzare nel lavoro? Complici i consigli e il perbenismo del mentore – art director Nigel e di una Miranda nuova nelle vesti della moglie abbandonata e triste Andrea decide di tornare alle sue origini ritrovando, come era prevedibile, l’amore del suo delizioso fidanzato. La non scelta del sottostare a Miranda ci ricorda che la nostra libertà resta, indissolubilmente coniugata con la possibilità e la responsabilità della decisione.

IL LIBRO “Il diavolo veste Prada” di Lauren Weisberger

 Un libro leggero, scorrevole che diverte, non manca di verve e fa anche pensare. Potremmo definire questo romanzo come una commedia glamour dalle ambientazioni scintillanti e sfarzose, le battute pungenti e le solite rivalità tra donne. E’ un quadro colorato del mondo della moda, la sua efficacia è forte ed è sicuramente aiutata da una città di stile come New Your.

La scrittrice Lauren Weisberger dipinge situazioni al limite del paradosso con ironia e passione, perché quello descritto è lo sfavillante mondo della moda, che lei conosce bene, come  ex assistente personale di Anna Wintour, direttore di Vogue America. Nel romanzo la storia è raccontata seguendo i passi di Andrea con stile amalgamato, deciso e coinvolgente, senti di essere una sua amica, di condividere le sue confidenze, la conosci, la ammiri. Andrea nel libro cambia, si evolve. Da brutto anatroccolo a cigno su 15 centimetri di tacchi, ma non è solo un cambiamento estetico il suo. C’è anche un’evoluzione affettiva e psicologica. La domanda di fondo, quindi, è: vale la pena di affannarsi così tanto per il lavoro? Sta proprio qui la parte più profonda e attuale del libro, che analizza, tramite battute e aneddoti, una vera e propria questione sociale in grande ascesa in una società così frenetica che vede la famiglia sempre più in crisi, spesso proprio per stress e mancanza di tempo.

Probabilmente questo romanzo deve il suo successo di vendite anche ad un titolo intrigante ed al fatto di essere figlio di questi tempi e in quanto tale gradito a un pubblico che vi si riconosce, anche se il mondo della moda, che doveva essere il punto forte del romanzo, è trattato un po’ superficialmente. Il romanzo è indicativo di una dimensione della narrativa declinata al femminile e di una certa posizione di questa “femminilità stereotipata ma non troppo” nella società; in esso c’è una componente che un giorno verrà vista come parzialmente sovversiva, perché i generi sessuali perdono i confini, perché le donne rivelano disinibizioni e pensieri che non si potrebbero credere, perché i romanzi migliori offrono contesti originali e impensabili.

IL FILM “Il diavolo veste Prada” di David Frankel

Divertente, frivolo, straordinario. Trasposizione cinematografica dell’omonimo best-seller autobiografico di Laura Weisberger, “Il Diavolo veste Prada” è quasi una rivisitazione della favola di Cenerentola, dove la protagonista più che un principe azzurro trova una mai posseduta eleganza e una maggiore consapevolezza di se.

Il film guarda con ironia all’inferno della moda, mettendo in luce gli aspetti dominanti di un universo in cui “milioni di ragazze ucciderebbero per avere un posto”: ambizione, carrierismo, ipocrisia, culto della forma. Ma soprattutto: abiti, gioielli, scarpe, borse e cinture. Tutto rigorosamente firmato.
Una commedia ben riuscita che riflette sull’eterno fascino di lusso, fama e successo professionale. In breve: lavoro di responsabilità, ascesa sociale e ricchezza assicurate o “due cuori e una capanna” con normalissimi amici e tenero boyfriend, umile cuoco innamorato? La protagonista si trova perennemente di fronte a questo interrogativo e la sua anima sembra scegliere la via del Diavolo: come le ricorda il compagno, “la persona con cui hai un vero rapporto è quella di cui non perdi mai una telefonata”. Miranda Priestly, dunque.

Amici, amore, famiglia: tutto sembra vacillare di fronte allo sfarzo del glamour newyorkese e parigino, vero protagonista del film, ritratto con abilità da David Frankel. Lo spettatore si butta dentro le immagini a capofitto, ritrovando una leggiadra perfidia che c’è nel romanzo, i tempi e i ritmi ti catturano; un film dotato di una potenza capace di far sussultare il nostro contemporaneo e i suoi pilastri fondanti. Al cinema, a differenza delle pagine del libro, invece di farti coinvolgere si ammira, si resta esterni. Spettatori di qualcosa di bello e curato, il prodotto è raffinato e si propone come eccitantissimo; una sfilata di moda lunghissima, un bagno di colori e griffe dove ciò che è glamour è anche crudele, in agguato, pretenzioso, capriccioso, affilato come una lama che taglia l’ autostima e il rispetto degli altri. Sta di fatto che il “vendere l’anima al Diavolo” da parte della protagonista si realizza solo attraverso un cambio d’immagine.

Come dire: è un quasi addio all’introspezione psicologica che è presente nel libro. Andrea, dopo un breve ma intenso periodo di fatiche e umiliazioni, inizia a guardare il mondo con gli occhi del successo e dell’ambizione (tanto che Miranda le confesserà di vedersi rispecchiata in lei), ma la trama non approfondisce questo momento di passaggio: si limita a mostrarla rinnovata nel look e nell’atteggiamento. Nel film la dimensione affettiva della protagonista è semplificata e narrata male, Anne Hathaway, infatti, ci dona un’apprezzabile interpretazione di “occhioni dolci” , forse un pò troppo affascinante nei panni di Andy, l’adattamento tende ad appiattire lo spessore e l’introspezione psicologica della protagonista.

Questa forse una delle poche pecche della pellicola.  Un film comunque da vedere, perchè bruciante e ficcante come solo la satira americana sa essere, ma anche efficacemente patinato ed edulcorato da diventare una sorta di cenerentola moderna priva dello zucchero Disney.

Il film regala uno spaccato tagliente e sarcastico del pianeta moda, pur riconoscendone le traiettorie trasversali all’arte e alla cultura , nonché le sostanziose ricadute economiche e l’influenza sul costume globale, ma il suo aspetto meglio riuscito e memorabile è rappresentato dalla performance attoriale di Meryl Streep, la quale da vita ad un personaggio estremo nella sua sgradevolezza e presunzione , ma anche umano nella sua ambizione e nella sua apparente contraddittoria fragilità. L’attrice rapisce con una recitazione che è tutta nei movimenti delle labbra, nei cenni del capo, nell’angolazione e nell’inclinazione dello sguardo, nel registro vocale, nei toni bisbigliati; fredda ma in fondo umana, regale ed altera anche quando mostra la sua vulnerabilità; impeccabile nel modo di congedare con “è tutto!”

Analisi de “Il Diavolo veste Prada” (film e libro) secondo le teorie dell’informazione di Fattorello e la teoria delle opinioni di  Stoetzel.

La Tecnica Sociale Fattorelliana,  spiega con una semplice e altrettanto esaustiva formula quali siano le correlazioni tra i vari fattori che operano in ogni processo di informazione. Esiste un Soggetto Promotore, il quale interpreta secondo la propria visione soggettiva un fatto, un’informazione, che chiameremo “X”. Il Soggetto Promotore trasmette l’informazione usando un mezzo (il giornale, ad esempio) per comunicare questo messaggio a un Soggetto Recettore (chi legge il giornale). Inoltre il Soggetto Promotore elabora l’informazione usando un modo di raccontare l’accaduto.

Questo elemento si chiama “Formula d’Opinione” e varia a seconda del destinatario al quale va il messaggio. Infatti il Soggetto Promotore non può avere la presunzione di scrivere come se stesse stilando un diario personale e che un pubblico indistinto debba riuscire a capire ciò che scrive. A seconda del Soggetto Recettore (il quale va studiato anteriormente, nella sua acculturazione, nelle modalità che questo preferisce usare per comunicare, ecc…) la Formula d’Opinione e il Mezzo varieranno. Nella sua rappresentazione grafica, possiamo esprimere la formula fattorelliana seguendo queste interconnessioni:

In questo modo le due parti coinvolte nel processo di informazione assumono una pari dignità. Il Soggetto Promotore racconta la sua visione soggettiva della realtà, il Soggetto Recettore riceve il rapporto d’informazione nei modi e con i mezzi che a questo si adattano maggiormente. Per comprendere correttamente i contenuti il Soggetto Recettore rielabora a sua volta l’informazione ricevuta secondo la sua percezione della realtà. Questo diviene così Soggetto Promotore instaurando un nuovo rapporto d’informazione verso altri Soggetti Recettori con Mezzi e modalità (M ed O) consoni a questi ultimi, e così via.

In questo modo si costruisce la rete dell’informazione rispetto a un determinato fatto e per un determinato gruppo di persone tra loro legati da rapporti d’informazione.

Da ciò deriva il nome di Tecnica Sociale dell’Informazione.           

Il fenomeno dell’informazione è molto vasto e complesso, ed è opportuno quindi fare una duplice classificazione: l’informazione può essere contingente e non contingente.

L’Informazione Contingente si avvale di opinioni generiche legate alla loro tempestività, sono punti di vista di un soggetto che ha a sua disposizione stretti limiti di tempo nei confronti di un recettore che è altrettanto pressato dall’urgenza e dalla curiosità di conoscere. La rappresentazione ed interpretazione di ciò che è oggetto di informazione, ovvero la forma, si avvale di stereotipi, i quali vengono recepiti istantaneamente. Possiamo quindi dire che le caratteristiche principali dell’informazione contingente sono:

  • unilateralità del processo
  • tempestività
  • pubblicità
  • soggetto promotore specialista
  • soggetto recettore generico
  • contenuto generico
  • stereotipi di cui si avvale
  • novità

L’Informazione Non Contingente, non è legata a stretti limiti di tempo, certo legate ad esigenze contingenti ma accettate attraverso un processo storico da una società, di cui sono diventate patrimonio tradizionale; qui la forma rispetta i valori, atti a formare attitudini profonde.

Quindi l’informazione non contingente è dotata di:

  • bilateralità del processo
  • soggetto promotore specialista
  • soggetto recettore qualificato, omogeneo
  • contenuto specifico
  • si avvale di valori
  • articolazione tramite procedimenti logici e razionali
  • assenza di novità
  • assenza di tempestività

Secondo Fattorello, l’attività di informare si può avvalere di molti strumenti, in questo caso; con il “Diavolo veste Prada” la vicenda viene narrata con due mezzi di comunicazione diversi : la carta stampata e il cinema.

Il libro è informazione non contingente in quanto le esigenze del soggetto recettore riflettono una modalità di apprendimento che non ha limiti ne di tempo, ne di spazio, non sono quindi caratterizzate dall’immediatezza e dalla tempestività. Questi limiti definiscono i bisogni di un differente tipo di recettore, vincolato dalla necessità di ricevere un informazione tempestiva, dunque contingente. Semplicemente, il libro è un chiaro esempio di informazione non contingente perché l’adesione ad esso è più lunga, in quanto entrano in ballo esigenze di comprensione, di riflessione e di razionalità. Bisogna capire prima di aderire, infatti il soggetto usa il suo  bagaglio socioculturale, i suoi schemi mentali, per poter leggere e comprendere il romanzo. Il processo si basa su procedimenti logici e razionali.  

Al contrario il film ha un tempo breve, poco più di un’ora e mezzo, e quindi l’adesione è rapida, essendo ricca di splendide immagini e sgargianti colori il recettore non si ferma a riflettere ma si limita ad osservare. Il recettore, inoltre, è rappresentato da un gruppo generico, eterogeneo e intenso. Lo stesso mezzo è usato per saldare il rapporto tra i due Soggetti: il cinema è caratterizzato dalla ripetitività e periodicità delle proiezioni in un arco del tempo variabile. L’informazione è quindi contingente.

L’informazione oltre a passare attraverso due differenti strumenti, è narrata da due differenti soggetti promotori, legati dal rapporto che si instaura tra promotore e recettore. Fattorello sostiene che i due principali termini dell’informazione sono soggetti opinanti, in quanto il soggetto promotore, come già detto in precedenza, trasmette la forma che ha dato a ciò che ha interpretato, cercando in questo modo di rappresentare ad altri quel fatto o quell’ ideologia. Il soggetto recettore, invece, interpreta a sua volta l’informazione pervenuta e si fa promotore verso altri della sua personale interpretazione.

Semplicemente, il promotore ed il recettore sono sullo stesso livello e sono sempre gli stessi. Nel “Diavolo veste Prada” (libro) il soggetto promotore primo, è la Lauren, la quale attraverso il libro ha narrato la sua storia. I lettori, soggetti recettori, sono diventati a loro volta promotori nel momento in cui hanno riferito la vicenda letta, secondo la personale interpretazione, ad altri (soggetti recettori). Il regista e la sceneggiatrice fanno parte dei soggetti recettori perché hanno interpretato ed elaborato, secondo il loro punto di vista e la loro opinione, la trama del libro adattandola alle esigenze cinematografiche.

Anche la teoria di Jean Stoetzel è applicabile ad un passaggio del libro in questione (dico libro, e non film, perché il cambiamento di Andrea è molto più completo ed efficace nelle pagine del romanzo che non nelle immagini del film). La neolaureata dall’inizio della storia alla conclusione ha un cambiamento radicale di opinione sul mondo della moda. Da non sapere se Gabbana si scrive con due o una B a vestirsi con dei capi extralusso, da ignorare i nomi dei giornali sulla moda a leggerne tantissimi tutti i giorni.

Inizialmente il suo scopo era poter lavorare in un famoso giornale, e il lavoro di assistente a Runaway era solo la via per esaudire il suo sogno. Avere dei pregiudizi e rimanere sulle sue idee erano le caratteristiche con cui Andy inizialmente si approcciava al nuovo lavoro e al mondo della moda. Con il passare del tempo, però, si accorge che per raggiungere il proprio obbiettivo e finire l’anno di lavoro a Runway era necessario adattarsi a quel mondo che, a suo “primo” parere, era così superficiale e frivolo.

Nel momento in cui Andrea cambia il suo look, diventando una quasi modella, in lei cambia anche l’opinione sulla moda in generale. Stoezel sostiene che ogni uomo appartiene ad un gruppo sociale, e lo ritiene come ideale, considerando gli altri gruppi inferiori; l’adesione ad un gruppo comporta anche l’adozione degli stereotipi, questo, per l’uomo è un modo di uniformarsi e di stare in armonia con il proprio gruppo.

Il gruppo sociale di appartenenza della nostra protagonista è sicuramente un ambiente semplice dove la moda e il glamour sono solo elementi superficiali e da prima pagina. Andrea ha quindi, adottato dal suo ambiente sociali determinati stereotipi che erano ben lontani dal mondo della moda. Nonostante ciò è interessante come l’assistente di Miranda si trasformi pagina dopo pagina. Abbiamo l’adesione ad un altro gruppo sociale che con il passare del tempo porterà all’allontanamento dalla famiglia e dagli affetti avviene, cioè, rottura con il suo gruppo sociale di appartenenza. Il cambiamento di opinione sulla moda è stata quindi una manifestazione che si è concretizzata con l’adesione ad un gruppo sociale diverso da quello in cui Andrea è cresciuta.

Opinione per Stoetzel è infatti porsi socialmente in rapporto con il proprio e altri gruppi. L’opinione della minoranza, in questo caso il mondo di Miranda e più in generale della moda, ottiene l’adesione del recettore, Andrea, che non lo accetta passivamente ma solo dopo un’attenta valutazione di coerenza con le proprie scale di valori. Andrea scopre che la moda non è solo frivolezza ma anche duro lavoro fatto con passione. L’Impegno è sicuramente un valore con il quale lei è cresciuta. Anche la scoperta della fragilità di Miranda rimanda al gruppo sociale di appartenenza di Andy. Andrea quindi si uniforma al nuovo gruppo sia perché ritrova in questo dei valori a lei cari sia per stare in armonia con esso e con i suoi membri.

La favola dell’oggettività – Perché non parliamo di fatti, ma di interpretazioni dei fatti

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI “CARLO BO” URBINO – Laurea specialistica in Editoria Media Giornalismo – Tecniche di relazione – Prof. Giuseppe Ragnetti

“La favola dell’oggettività – Perché non parliamo di fatti, ma di interpretazioni dei fatti”

a cura di Marco Guardanti

Spesso, si dice che uno degli imperativi della deontologia di ogni giornalista sia rispettare l’oggettività dei fatti. Ovvero, ogni giornalista che si rispetti dovrebbe riportare la realtà dei fatti esattamente così come si è verificata, senza alcuna influenza o interpretazione.

Assai meno di frequente, di contro, si realizza che questo è impossibile. Laddove vi sia comunicazione, c’è sempre interpretazione. Gli uomini non sono macchine, sono individui, soggetti. E sono tali sia che facciano i giornalisti, i professori, gli studenti o qualsiasi altra professione. Ciò implica che chiunque, nessuno escluso, detiene una formazione personale psico-sociale ben definita, cresciuta e cristallizzata sulla base di esperienze e valori consolidati del gruppo di cui si fa parte. Alla luce di essa, come si può parlare di oggettività?

Esaminiamo la questione in maniera generale. Se assistiamo ad un evento, uno qualsiasi, e poi riportiamo il resoconto di esso ad un interlocutore che non era presente, è lampante che non sarà l’evento stesso a proporsi a lui, quanto, piuttosto, una nostra interpretazione di esso. E centinaia sono i fattori che concorrono a definire e particolareggiare tale interpretazione.

Infatti, guardare una cosa da due punti di vista, significa, spesso, guardare due cose. E’ una questione di prospettive. Se assistessimo, per assurdo, allo stesso avvenimento per due volte, senza serbare memoria della precedente ma variando la posizione di osservazione, e poi seguitassimo a parlare dell’evento, ne daremmo due descrizioni differenti. Forse in minima parte, forse esponenzialmente, ma differenti.

Inoltre, nel riportare il nostro racconto a chi ci ascolta, ci serviamo di infiniti accorgimenti, inconsci o perfettamente consapevoli, con i quali diamo una forma, una “fisicità” all’idea che vogliamo trasmettere. Lo stesso evento di prima, tanto per intenderci, necessita di una sua forma comunicativa per essere narrato. E tale forma è mutevole e dipende da tanti fattori. Il mezzo che usiamo per trasmettere l’informazione, il destinatario a cui ci rivolgiamo, i rapporti che abbiamo con esso, eccetera.

Nondimeno, la nostra natura di soggetti permane sempre, anche quando presenziamo all’ormai celebre evento. Qualsiasi sia la specificità di esso, noi la filtriamo attraverso la nostra personalità, i nostri dettami culturali, le nostre idee, specie quelle non contingenti, ossia radicate, cristallizzate a livello educativo e valoriale. Per chiarire, ritorniamo all’esempio precedente, sempre ragionando per assurdo: se facessimo assistere due individui differenti ad un medesimo avvenimento, dalla medesima posizione, otterremmo comunque due racconti diversi, forse, chissà, persino incompatibili. Questo perché i nostri filtri agiscono anche se non badiamo loro, anche se cerchiamo di zittirli o nasconderli in vece della ricerca chimerica di una tanto decantata oggettività.

Diamo corpo al nostro esempio. Supponiamo, banalmente, che il nostro summenzionato evento non sia altro che l’avvenuto screzio tra un cane ed un gatto, quest’ultimo scacciato dal giardino del primo. Ci sono vari modi in cui il presunto “fatto” può essere riportato, confacenti alle attitudini personali di colui che narra. “Aggressione subita da un ignaro micetto indifeso” e “Finalmente Fido si è liberato dell’odioso gattaccio” sono due modi, esemplificativi quanto estremi e ironici, per dire la stessa cosa. Non per niente, leggere i titoli della più parte delle testate giornalistiche italiane si traduce in un esercizio simile.

Ma torniamo al nostro diverbio tra animali domestici. Nel descriverlo, anche laddove si cercasse di essere il più attinente possibile alla neutralità, quest’ultima non sarebbe che un miraggio. Se non altro, perché le idee personali premerebbero comunque per uscire. Supponiamo, nel caso, che tale notizia sia riportata da un accanito cinofilo, o, all’opposto, da un amante dei gatti. Il risultato, al di là di ogni tentativo o spinta verso la presunta neutralità, sarebbe, molto probabilmente, influenzato dalle vicende personali e dai personali gradimenti dei due narratori.

Non va dimenticato, infine,  che l’atto informativo avviene tra due soggetti, come detto sopra. E’ un soggetto colui che parla, o scrive, o filma; ma la stessa condizione è propria anche di colui che ascolta, o legge, o guarda. Gli schemi interpretativi che adottiamo quando esplicitiamo qualcosa, andranno, giocoforza, valutati e interpretati (sì, ancora!) da colui o coloro che interagiscono con noi. Pertanto, se le parole, il tono e i gesti da noi scelti per comunicare ci appariranno perfetti e funzionali allo scopo per cui li abbiamo chiamati in causa, alla valutazione altrui gli stessi procedimenti potrebbero risultare diversamente.

Poniamo il caso che il cinofilo di prima recensisca la cacciata del gatto all’amante dei felini, di cui sopra, ignaro del fatto. Quest’ultimo potrebbe non gradire l’interpretazione vittoriosa e positiva dell’evento, conferita dal “rivale”. Ecco che l’incomunicabilità dei soggetti potrebbe emergere senza troppe esitazioni, condannando i due a non capirsi, a non raggiungere una vera comunicazione (secondo l’etimologia, “comunicare” significa “mettere in comune”: è evidente lo scarto tra l’uso colloquiale del termine, inteso come informare). La ricerca di adesione, di accordo, di omologazione sociale che tanto ci sta a cuore quando intessiamo le nostre relazioni comunicative sarebbe, senza dubbio, ben ardua da ottenere, in questo caso. Ma non solo in questo. Possiamo ipotizzare infiniti motivi di conflitto nell’espressione di opinioni.

Se il cinefilo parlasse ad un altro cinefilo ed essi fossero, poniamo, rivali in amore, probabilmente le vicissitudini personali dei due occulterebbero ogni comunanza canina, finendo per creare attriti anche se, sulla carta, il discorso in sé non poneva alcun punto di contrasto. O, ancora, se il cinefilo fosse in compagnia della moglie, amante dei felini, e dovesse fare ad un amico il resoconto di quanto avvenuto, egli propenderebbe per una versione meno schierata dalla parte del cane, per quieto vivere coniugale. Eccetera.

Ora, ben consapevoli delle velleità e dell’ironia delle situazioni proposte, è tuttavia innegabile che esse siano, in qualche modo, confacenti alla realtà. La soggettività dei soggetti (e la cacofonia è ancor più esemplificativa) in gioco durante il processo della informazione è tale da influenzare l’intero processo, in ogni sua parte, in modi talmente viscerali che, spesso, sono difficili da prevedere a priori e spiegare a posteriori.

Un metodo più scientifico e meno scenografico per descrivere questo fenomeno, che mette una pietra definitiva sulle pretese di oggettività, è esemplificato nella teoria della tecnica sociale, di Francesco Fattorello.

In maniera chiara e scientifica, tale teoria esplica le influenze e le modalità di realizzazione dei processi informativi. Lo schema che ne deriva, intuibile e preciso, è il seguente:

x)

                                                             M

                                                 Sp                    Sr

                                                             O

Come si può vedere, l’oggetto reale x) di cui si dibatte, non è interno alla comunicazione. Noi non possiamo, in tutta evidenza, riprodurre concretamente lo stesso evento, mentre ne narriamo la nostra interpretazione. Ciò che possiamo fare, ed infatti facciamo di continuo, è dare una rappresentazione, una forma alla nostra opinione, (O) e trasmetterla attraverso un mezzo (M) adeguato, per ottenere l’adesione che agogniamo.

Le “S” poste davanti alla “p” di Promotore e alla “r” di Ricettore ci ricordano, e faremo sempre bene a non dimenticarlo, che il processo dell’informazione avviene tra Soggetti, eguali tra loro.

Siamo, in tutta evidenza, anni luce lontani dai modelli di comunicazione pseudo-matematici che propinano un Destinatario passivo, subordinato ad un’Emittente quasi onnipotente, a livello di trasmissione dell’informazione.

Si tratta di soggetti interpretanti, non di macchine programmate per trasmettere input. E, in quanto tali, i soggetti si trovano su un medesimo piano comunicativo, come ben reso dalla linearità della loro posizione nello schema. Non sussistono, tra promotore e ricettore, rapporti di potere tali da ignorare i filtri interpretativi l’uno dell’altro. Non si possono semplicemente bypassare, per usare un termine informatico. Certo, è possibile ottenere prestigio, autorevolezza, specie se si detiene una posizione rispettata all’interno di un gruppo sociale, o se si padroneggiano tecniche comunicative, così come un bravo artigiano sa plasmare i materiali con cui lavora. Ma i divari terminano qui, e non sono certo esponenziali.

Tanto è vero che, nella catena comunicativa, ogni soggetto ricettore può diventare, a sua volta, soggetto promotore di un medesimo argomento, dando luogo a un nuovo processo di informazione, che andrà ad inserirsi in un ciclo teoricamente infinito. E’ questo, sostanzialmente, il modo in cui la società umana, fatta di relazioni sociali, valori, opinioni e peculiarità culturali non contingenti, si protrae nel tempo, garantendo la sua sopravvivenza e, di tanto in tanto, generando cambiamenti e attuando un’evoluzione.

Per questo, per tutto quanto detto sinora, è lampante che nessuno al mondo può forgiarsi del vanto di possedere “la parola assoluta” su qualcosa. Anche il profeta più celebrato, anche l’uomo di stato più votato, anche l’intellettuale più celebrato non detengono la capacità di riprodurre la realtà oggettiva, nei loro processi di informazione. Essi, come tutti, non mettono in scena il fatto in sé, ma si limitano a darne la loro versione. Che essa venga poi considerata autorevole, rispettabile, condivisibile è un altro discorso. Il discorso su cui si basano politica, giornali, scienza e quant’altro. Ma ciò nulla toglie alla soggettività dell’informazione, intesa non certo come un rifiuto postmoderno delle grandi narrazioni filosofiche, o come un’estremizzazione dell’ “anti-anti-relativismo”, per usare le parole dell’antropologo Clifford Geertz, quanto, piuttosto, come il solo modo che gli esseri umani, in quanto soggetti culturali, hanno per esprimersi.

Il condizionamento dei mezzi di informazione: realtà o illusione ?

Università degli studi di Urbino “Carlo Bo” – Facoltà di Sociologia – Corso di Laurea Specialistica in Editoria, Media e Giornalismo – “Tecniche di Relazione” Prof. Giuseppe RAGNETTI

“Il condizionamento dei mezzi di informazione: realtà o illusione ?”

a cura di Annalisa Blasetti

Ogni giorno sentiamo parlare di condizionamento dei mezzi di comunicazione di massa, di onnipotenza dei media, di informazione obiettiva. Ancora, si parla di pubblicità occulta, di messaggi subliminali, per cui esisterebbero informazioni che il cervello di una persona assimila a livello inconscio, suoni, immagini, scritte che nasconderebbero al loro interno, come in un codice cifrato, ulteriori frasi o immagini avulse dal contesto iniziale che rimangono inconsapevolmente nella memoria dell’osservatore.

Si dice che la pubblicità fa vendere, che è forza pervasiva e potente che influisce sulla mentalità e il comportamento dimenticando che, come ogni atto di comunicazione, la forza e il valore della pubblicità dipendono dal suo destinatario. Il “ricordo” specifico di un messaggio pubblicitario non è la misura della sua efficacia. Ci sono annunci, film, manifesti eccetera che ricordiamo, per qualche loro caratteristica insolita o interessante, ma di cui non teniamo alcun conto nelle nostre scelte.

Ci sono, invece, infinite cose di cui siamo convinti anche senza ricordare esattamente da quale persona, fonte, fatto o circostanza abbiamo ricavato quella convinzione. Questo vale anche per la pubblicità. Raccogliamo ciò che ci interessa o può esserci utile, dimentichiamo il resto. Ogni messaggio che riceviamo (pubblicitario o non) non è un segnale isolato; nel momento in cui lo percepiamo si mescola immediatamente con le nostre conoscenze, esperienze e opinioni, diventa una nostra conoscenza, che può essere molto diversa da ciò che qualcuno aveva intenzione di dirci. La non comprensione di questo “metabolismo” mentale è uno dei motivi per cui si produce tanta comunicazione inefficace.

Queste erronee convinzioni hanno il loro capostipite nella cosiddetta “Teoria Ipodermica”, che si sviluppa nel periodo tra le due guerre mondiali, quando l’Europa è attraversata dal fenomeno fascista e nazista dove le masse, ancora inconsapevoli del reale potere dei mezzi di comunicazione di massa, furono portati a sostenere tale tipo di regimi.

La Bullet Theory, detta anche “Teoria dell’ago ipodermico” è una teoria secondo la quale i mass media sono potenti strumenti persuasivi che agiscono direttamente su di una massa passiva e inerte. Il messaggio sparato dal medium viene iniettato direttamente nel cervello del ricevente, il quale ha un ruolo del tutto passivo. Come si evince dalla traduzione letterale, il termine bullet sta a significare la parola “proiettile” ovvero il messaggio mediale che colpisce direttamente un soggetto, evidentemente senza possibilità di opporsi.

In questa fase, il problema centrale della ricerca è quello degli “effetti”: una volta stabilito che il messaggio viene trasmesso per via “ipodermica”, direttamente dall’emittente al pubblico attraverso un “ago ipodermico” rappresentato dal medium, si tratta soltanto di quantificare gli effetti sul comportamento dell’esposizione a quel messaggio. Era quindi dato per scontato che una volta sparato il “bullet”, si dovesse soltanto capire quanti e quali “target” sarebbero stati colpiti, dando per scontato che esistesse una correlazione diretta tra esposizione ai messaggi e comportamento.

“La Tecnica Sociale dell’Informazione, elaborata da Francesco Fattorello, si basa sul presupposto che non possa esistere un’impostazione teorica sulla comunicazione sempre valida ed applicabile a qualunque recettore ma che una metodologia sui processi di interazione tra chi promuove e chi riceve la comunicazione, debba necessariamente essere tarata sul recettore.

Ecco allora il recettore non più oggetto passivo della comunicazione che diviene, a sua volta, un soggetto opinante di pari dignità che interagisce sempre e comunque con il promotore, all’interno di una complessa dinamica sociale.” Da qui l’apporto fondamentale di una Tecnica Sociale che ricerca l’adesione e quindi il consenso dei destinatari sulla base delle loro attitudini sociali. Attitudini sociali intese come disponibilità ad accettare le opinioni proposte, secondo la propria acculturazione, intendendo per acculturazione tutto ciò che l’ambiente sociale ha, inevitabilmente, trasferito nell’arco di tutta una vita a qualsiasi essere umano.

La Teoria della Tecnica Sociale si pone in netta antitesi con l’impostazione teorica anglosassone che per decenni ha inteso far leva sulla psiche dell’individuo attribuendo alla comunicazione in senso lato la capacità di “persuasione occulta”. L’informazione come tecnica sociale si articola tra due soggetti opinanti, il promotore ed il recettore, mediante un mezzo il cui contenuto è quella tal forma data a ciò che è oggetto di informazione. I termini del processo di informazione sono:

                x)

                                                  M

                                   SP                        SR

                                                  O

SP è il soggetto promotore che ha l’iniziativa dell’informazione;

SR è il soggetto recettore;

M è il mezzo o lo strumento che serve a saldare il rapporto tra i primi;

O è il contenuto, ovvero la forma data all’oggetto dell’informazione.

La x) indica ciò che è oggetto del rapporto di informazione, ciò di cui si parla. E’ accompagnata da una parentesi che sta ad indicare come il fatto, l’ideologia, il personaggio di cui si parla resta fuori dal processo.

Infatti, se devo riferire su una mostra di quadri che ho visitato non è questa che metto fra me relatore e il mio recettore, ma la mia relazione sulla mostra.

L’aspetto molto importante da sottolineare è che nel modello Fattorelliano i due termini principali sono soggetti opinanti, cioè opinano su ciò che è motivo dell’informazione. Non è, infatti, corretto dire che il SP promuove l’informazione e il secondo la riceve passivamente. Il SP trasmette la forma che ha dato a ciò che ha interpretato; il SR non si limita a riceverla, ma la trasmette a sua volta. L’informazione non si estingue, ma si rinnova sempre per cui il SR di un rapporto che si vuole considerare diventa SP nell’anello di una catena seguente che si sviluppa orizzontalmente e che può irradiarsi a raggiera ove i destinatari siano diversamente distribuiti. 

L’opinione è quella che il soggetto promotore trasmette al recettore su una cosa, un fatto, un’ideologia e opinione o reazione di opinione è quella del recettore allorché aderisce o meno a quella che gli viene proposta su una cosa, una fatto, un’ideologia. Affinché il recettore sia tale è indispensabile la sua socializzazione allo stesso ambito culturale del soggetto promotore. Ove mancasse una tale corrispondenza, il rapporto di informazione non avrebbe l’effetto voluto: il contenuto non potrebbe essere ricevuto o capito, oppure potrebbe essere male interpretato.

Il fatto che la configurazione del contenuto è preceduta da un processo di opinione, ci richiama alla soggettività che caratterizza il fenomeno dell’informazione. L’uomo non può uscire da se stesso, dalla sua soggettività. Per cui coloro che affermano di essere obiettivi o imparziali presentano, di fatto, una visione della realtà relativa ad ognuno di noi.

La Tecnica Sociale dell’Informazione ha restituito dignità al soggetto recettore rendendolo protagonista del processo comunicativo che è di natura sociale. Questo vuol dire che il processo dell’informazione e dell’adesione di opinione non ha nulla a che vedere con il comportamento del recettore.

Una volta che il SP ha informato la x) e la trasmette al SR in una forma ad esso adeguata, il SR può aderire oppure no, ma il processo si ferma lì. Il conseguente comportamento che assumerà il recettore non riguarda il processo né tanto meno può essere determinato dallo stesso. In altre parole al SR può piacere la pubblicità o il programma che gli è stato proposto, ma questo non implica necessariamente che poi acquisti il prodotto reclamizzato o guardi il programma, per tutta una serie di motivi specifici o particolari per ognuno di noi.

Partendo da ciò l’unica cosa che si può fare è operare sulle opinioni dei recettori e realizzare il messaggio nel modo più consono all’acculturazione degli stessi. Alcune scuole predicano, tuttora, una “strategia psicologica”: soprattutto in propaganda e pubblicità, si dovrebbe giocare con gli istinti dei recettori scavando nelle profondità dell’animo umano, convinti che tale metodo apporti proficui risultati. Non è facile comprendere che compito dell’informazione è raggiungere un’adesione di opinione e, per questo obiettivo, la psicologia non serve.

   “ Vorremmo dubitare del presunto potere, più o meno occulto, dei mezzi di informazione di condizionare il pubblico. Basti pensare alla fine ingloriosa di regimi e dittatori, che disponevano, in assoluto, di tutti i mezzi d’informazione o più semplicemente all’insuccesso di dispendiose campagne pubblicitarie.

   I mezzi di informazione certamente agiscono sulle opinioni, ma non sono in grado di condizionare i comportamenti degli uomini. Sono altri i motivi, alcuni noti altri meno, che stanno alla base delle nostre azioni.”

(Citazione dal libro:Giuseppe Ragnetti,  Opinioni sull’opinione, Ed. QuattroVenti , Urbino 2006)

“Novella 2000”: un’informazione all’italiana

Facoltà di Sociologia – Corso di Laurea specialistica in Editoria, media e giornalismo – Tecniche Di Relazione, prof. Giuseppe Ragnetti

“Novella 2000”: un’informazione all’italiana

a cura di Orazio Martino

  • Introduzione
  • Profilo, curiosità ed orientamento della rivista
  • Opinioni su opinioni
  • Conclusioni

Introduzione

Viviamo in un Paese dove il gossip, la notizia facile, lo scoop, la comunicazione contingente, dominano le passioni di una miriade di esseri comunicanti, che a malapena riescono ricompattare i pezzi per un’efficace difesa. Si pensi alla generazione odierna di mamme casalinghe, la cui domenica è spesso incentrata sulle pulizie e sulla TV accesa 24 ore su 24: salotti, dibattiti, Giletti e l’informazione diventa scoop, la comunicazione sensazione. Si opta per una trasmissione nazional-popolare, che attira ed è convinta di nascondersi dietro la maschera di una cultura che non c’è.

Questioni che acchiappano, dibattiti che si infiammano, scenate programmate, liti e parolacce; la comunicazione è diretta, e data la superficialità, l’assorbimento immediato. Di certo non si mira a infrangere la muraglia del pudore, ma tutto appare confuso, ambiguo: pensate alle bravate di alcuni conduttori televisivi, in merito alle quali vengono immediatamente espresse scuse pubbliche. In Rai si tenta di comunicare tramite un’immagine sobria e classica (si veda la razionalità di un conduttore come Bruno Vespa), sulle reti Mediaset invece si punta più al lato giovanile, immediato e rischioso dei contenuti (trasmissioni quali Lucignolo meriterebbero il linciaggio mediatico). Ma se c’è un mezzo che più d’ogni altro continua a perpetrare la sua filosofia tutta scoop e spazzatura commestibile questo è Novella 2000, quanto di più obbiettivo si possa immaginare in un mezzo di comunicazione al giorno d’oggi.

Novella 2000 è la rivista più schierata e parziale d’Italia, con un’identità e target di ferro, l’obiettivo è uno solo: farsi i fatti degli altri, e cosa c’è di meglio sotto un sole estivo che spulciare nei fatti della gente altrui?

Mediatori infallibili, i paparazzi sono il motore della rivista, il male che Fabrizio Corona vorrebbe estirpare. Se nell’esempio televisivo le nostre casalinghe non hanno alcuna responsabilità (perché una volta accesa, è la “scatola” che decide per loro), con Novella 2000 il confine si fa più sottile: chi acquista la rivista lo fa perché intende ricevere quel particolare tipo di informazione detta in quel preciso modo. Novella non fallisce un colpo: contenuti futili, fotografia rizza capelli ed articoli fini a se stessi.

Profilo, curiosità ed orientamento della rivista

Gossip: “parlare ozioso, diceria insignificante o senza fondamento […], indifferentemente parlata o scritta, soprattutto a proposito di persone o di fatti concernenti la comunità”.

Oxford English Dictionary

In Italia, dove il calcio è lo sport più popolare, anche i suoi fautori sono considerati V.I.P. (very important person). Questa banda di milionari sulla cresta dell’onda non può sbagliare una mossa , che si tratti di questioni pubbliche o private. Alle loro spalle si muove una combriccola di fotografi d’assalto, pronti ad immortalarne qualsiasi passo falso, caduta di stile od infatuazione amorosa. Loro sono i paparazzi, e Novella 2000 la madre superiora.

Paparazzo è un termine coniato da Ennio Flaiano negli anni Cinquanta, la madre superiora esiste dal 1919, e questo è un dato di fatto impressionante. Da quell’anno, infatti, non smetterà mai di pubblicare i suoi articoli, incentrati sul pettegolezzo e roba simile, con un profilo culturale dichiaratamente basso.

Il fatto che esista da 90 anni dimostra come in Italia sia sempre attiva quell’oziosa frangia interessata più al gossip che alla cultura in generale. Novella 2000 vi sbatte in faccia le sue “notizie”. Contenuti spesso graffianti si abbinano impeccabilmente ad immagini che sfociano nel volgare, per non parlare dei titoli, autentici pugni nello stomaco per l’impatto sensazionalistico che possiedono. Nel corso degli anni, la rivista ha dovuto vedersela con una concorrenza agguerrita, in più c’erano le denunce dei diretti interessati (politici, attori, calciatori). Escludendo alcune cadute sporadiche, il riscontro in denaro non è cambiato, così come il suo accanito pubblico, fedele a masticar spazzatura piuttosto che orientarsi sulla lettura di un articolo critico firmato Aldo Grasso sul Corriere Della Sera.

Gente poco disposta trova in Novella 2000 panne effimero per i suoi denti, la rivista è chiarissima, obiettiva, conservatrice: tratta uguali tematiche da circa 90 anni. L’identità del pubblico è parecchio variegata, si va dalle studentesse che fanno economia alle nonne sessantenni poco propense ai film d’azione. A partire dal 2002, Novella 2000 ha subito un imperscrutabile lifting cartaceo, adeguandosi alle imminenti potenzialità offerte dal mezzo internet, approfittando quindi dell’enorme risonanza offerta. Nel 2008 la direzione viene affidata a Candida Morvillo, classe 1974.

La RCS mediagroup punta molto su questa trentenne napoletana, donna verace la Morvillo. Il primo numero della nuova gestione è incentrato sullo scoop d’altri tempi, destinato a stravolgere una volta per tutte i canoni del modo di fare gossip in Italia. In copertina campeggia un’immagine del ministro Gianfranco Fini beccato in intime effusioni con la sua compagna Elisabetta Tulliani. La notizia è presentata come l’anticamera della svolta di Novella: niente più overdose di veline e calciatori, bensì maggiore spazio a personaggi finora rimasti dell’ignoto, politici e imprenditori su tutti. Anche il gossip ha le sue strategie.

Lo stile della Morvillo coincide con il Dna di quella che dovrebbe essere una rivista di gossip: notizie senza mezzi termini, confessioni sparate in faccia come acqua bollente, domande e risposte senza filtraggio o censura. Si scava nei personaggi senza giri di parole, con trasposizioni semplici ma aggressive. Titoli quali “Ecco la compagna segreta di Carlo Conti, lui vuole un figlio da lei!” oppure “Clamoroso: nuovo incontro segreto tra Elisabetta Canalis ed il calciatore Drogba, a Los Angeles” accompagnati dalla foto di rito godono di un impatto sensazionalistico diretto e circonciso. “Carlo Conti, ah quello che presenta Miss Italia” potrebbe essere la reazione di un lettore qualsiasi.

Quello di Novella, invece, mai soddisfatto, va a cercare nell’articolo l’approfondimento gli cambierà la vita. Il potere del gossip è anche questo: qualcosa di sbagliato ed inspiegabile ma che arriva dritto al bersaglio. Ci sono anche casi di VIP che vengono pagati fior di quattrini per architettare uno scoop con tanto di copione in mano. La notizia può essere vera o falsa, l’importante è che abbia effetto. La notizia scorre talmente veloce che non si bada minimamente ad analizzarne il suo contenuto di verità. Come può un articolo di gossip essere sottoposto a critica se la realtà è una sola e la si acchiappa facilmente?

Il giornalista di tale rivista mira ad ottenere semplicemente un adesione di opinione tempestiva e contingente da parte del suo lettore a quanto egli suggerisce. Uno si avvale degli “stereotipi”, l’altro si preoccupa di rispettare i valori atti a formare attitudini profonde. Il risultato è quella che potremmo definire informazione contingente, in opposizione ad un’altra non contingente. Tempestiva e contingente è l’informazione il cui valore si identifica nel momento più utile, più opportuno per ottenere la più piena ed immediata adesione del recettore all’opinione sulla quale lo si richiama[1].

Dal parrucchiere, Novella 2000 approfitta della gente che non è disposta, in pieno pomeriggio, a leggere qualcosa di serio. Da un dentista non troverete mai una copia dell’Internazionale, c’è troppa tensione per addentrarsi in un articolo di politica estera. Ed ecco che interviene Novella 2000, con il suo carico di superficialità disarmante e scatti da night club, una sfogliata generale e via in sala operatoria. Potremmo anche comprenderli, i pazienti di un dentista, o di un parrucchiere, basta mettersi nei loro panni.

Un altro conto è chi, settimanalmente, entra in edicola e si accaparra l’ultimo numero della sua rivista preferita. Un conto è la situazione, le circostanze (l’esempio dei pazienti), altra cosa è la volontà di mettersi la giacca ed uscire per comprare Novella 2000.

Per non parlare degli abbonati. Come si può resistere a classifiche tipo “I Re e La Regina del Gossip Italiano”, stravinti nel 2008 da Simona Ventura e Fabrizio Corona! Briatore- Gregoracci la coppia maggiormente bastonata, “tradimenti e matrimoni” le notizie che la gente vuole sentire. Il sondaggio è stato inoltrato a 350 donne appassionate di cronaca rosa, di età compresa fra i 18 e i 55 anni, contattate telefonicamente. Secondo la stessa indagine, la televisione sarebbe il campo ideale per piantare i semi del gossip.

Opinioni su opinioni

“L’opinione è per colui che si occupa di informazione come la farina per il fornaio. E’ la base da cui partire affinché il prodotto finito  risulti gradevole e soddisfi il pubblico – cliente.”[2] Eccovi svelato il trucco: dietro la sua inutilità, Novella 2000 nasconde quanto di più predatorio in tattiche comunicative si possa immaginare. Alla gente che si domanda “Novella 2000, sono anni ormai che si trova in edicola, e non riesco ancora a capire come facciano le persone a leggere tanta banalità” si risponde chiaramente: difficilmente la rivista cesserà di esistere, perché difficilmente da un giorno all’altro la gente cesserà di acquistarla.

A quelli sottolineano che “spesso le notizie sono fasulle” la riposta sta nell’importanza che il poco o nulla di ciò che osserviamo o leggiamo viene, nella maggior parte dei casi, sottoposto a filtraggio. “Non si trasmette mai la realtà tale e quale ma sempre e solo la sua forma”[3]. La realtà ha urgente bisogno di essere manipolata, la capacità di Novella sta proprio in questo: comunicare la realtà nel modo più vicino possibile al suo recettore. Se poi l’identità di tale destinatario sarà ben squadrata allora il percorso di avvicinamento risulta ancora più semplice. La coloritura, l’interpretazione, la semplicità diventano i cardini dell’informazione all’italiana di Novella 2000.

Quanto ce piace chiacchierà” diceva la Ferilli in uno spot. Inoltre la rivista ha un target ben preciso, assolutamente schierato, una bordata di fans che raramente intraprende altre letture. Possono tradire la “madre”, ma è difficile che si stacchino dal filone gossip. La formula d’opinione di un giornalista che scrive per un determinato soggetto recettore sarà fortemente condizionata da tale recettore. La realtà è noiosa, la realtà non può essere comunicata, la realtà di novella è bombardata dallo scoop e inzuppata nel pettegolezzo. Ciò che ne vien fuori è qualcosa di surreale. “Perché non spacciare lo zucchero che quel VIP ha in mano per cocaina?” è un ragionamento tipico, il problema è che si è smarrita la realtà.

Sfogliare Novella 2000 è un piccolo vizio che tutti noi abbiamo indistintamente dal sesso a cui si appartiene. Fa parte della nostra cultura, la curiosità è di casa nostra”. Un’informazione all’italiana, non c’è titolo più appropriato. Quanto a noi studenti, un pizzico di curiosità può essere anche genuina, ma attenzione a non andare oltre.

Conclusioni

Qui non si tratta di essere persuasi da qualcosa di occulto che proviene dall’esterno, chi spende 2 euro per la rivista lo fa perché è la sua volontà lo decide. Il ricettore non è più un soggetto passivo, ma un soggetto opinante di pari dignità che interagisce sempre e comunque con il promotore[4].

La soggettività del promotore, come quella del ricettore, è determinata da tutte quelle circostanze psicosociali che la condizionano[5], e l’Italia non è mica la Svezia, giacché è tradizione qui da noi essere informati sulla vita di chi ha due piedi nel mondo dello spettacolo. Gli italiani sono immersi fino al collo nel mare del consumismo mediatico, dell’omologazione all’informazione dell’attualità. Uno dei principali motivi per cui l’informazione pubblicistica raggiunge facilmente il suo scopo sta nel fatto che essa è alleata dell’ignoranza del ricettore[6].

Di certo Novella contribuisce al meschino gioco, ma da cosa dipende questa enorme ascesa? Certamente dal lettore. Esisterebbe ancora Novella 2000 se nessuno la comperasse? “Dio preservi coloro che ama da letture inutili”, diceva un vecchio filosofo.


[1] – Francesco Fattorello, Teoria della tecnica Sociale dell’Informazione, 2005, Quattro Venti, Urbino

[2] – Giuseppe Ragnetti, Opinioni sull’opinione, pag. 17, 2006, Quattro venti, Urbino.

[3] – Giuseppe Ragnetti, Opinioni sull’opinione

[4] – Francesco Fattorello, Teoria della tecnica Sociale dell’Informazione, 2005, Quattro Venti, Urbino

[5] – Francesco Fattorello, Teoria della tecnica Sociale dell’Informazione

[6] – Francesco Fattorello, Teoria della tecnica Sociale dell’Informazione

Il teatro dello spettatore … palcoscenico del mondo

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI “CARLO BO” URBINO – Laurea specialistica in Editoria Media Giornalismo – Tecniche di relazione – Prof. Giuseppe Ragnetti

“Il teatro dello spettatore … palcoscenico del mondo”

a cura di Adele Frosina


“La poesia non sta solo in chi scrive, ma soprattutto nell’orecchio di chi ascolta”  [R.Benigni]

Tutta la poesia, non solo quella teatrale, è sperimentazione. Ma un libro, un’opera d’arte, non mutano se stessi, al contrario della figura dell’attore teatrale, sempre in contatto col suo pubblico, aperto ad ogni cambiamento e ad intuizioni fino a quel momento probabilmente a lui sconosciute. Bisogna quindi fare una distinzione tra evento teatrale e spettacolo: il primo si svolga in uno spazio/tempo reale, in cui tutti sono parte attiva, sia attori che spettatori. Il secondo è definibile pura “rappresentazione”, in cui l’attore si limita ad essere un preciso esecutore, passivo come il suo pubblico, dell’autore o del regista.

Fatta questa premessa, si potrebbe dire che l’arte scenica in generale è l’unica forma in cui potrebbe (o meglio dovrebbe) avvenire una graduale e lenta mutazione, ovviamente parziale e momentanea, più o meno grande, di tutti i partecipanti al processo.

Il teatro diventa quindi sinonimo di sperimentazione, poesia vivente, l’evadere da un qualcosa di già noto, conosciuto e reale. La presenza del pubblico è essenziale, prescinde dalla quantità, dal numero dei partecipanti, ma non dalla qualità; quest’ultimo aspetto si avvicina a caratteristiche come la disponibilità, la fiducia mentale e fisica, la passione, e perché no, il rischio. Allora teatro come palcoscenico del mondo, dove ognuno dovrebbe recitare la propria parte, togliendo l’ego, il superfluo, per contribuire, anche se in minima parte, alla trasformazione del mondo stesso. Ma non solo. Teatro come la vita, ma non in quanto metafora, bensì come una tecnica di conoscenza che lascia tracce tangibili solo nella memoria.

Si tratta di una pratica artistica collettiva, dove sono essenziali la creatività dei partecipanti oltre alle relazioni che si stabiliscono fra di loro; è una sorta di catena, di circuito, che investe sulla committenza come elaborazione, condivisa, partecipativa, che elabora stimoli e suggerisce spunti di riflessione, spesso sulla società stessa.

A riguardo, sono interessanti le dichiarazioni di Edoardo Sanguineti, Professore di letteratura e autore di teatro, critico, saggista: «Si comunica, a principio, con una ristrettissima cerchia di complici. Poi, quando accade, se accade, l’uditorio si allarga, e l’orizzonte dei destinatari, ma sarebbe più esatto dire dei committenti, si dilata, e diviene un pubblico vero. […] Mancando la committenza, manca anche un’idea del teatro, e questa committenza, se non vuole rimanere una specie di desiderio informe deve articolarsi in istituzioni concrete. È a partire dalla committenza, intesa anche come centro in cui vengono amministrate e regolate le risorse che necessariamente devono sostenere il teatro, che si articola l’operatività di quel fatto comunitario che è appunto il teatro, il quale si alimenta del corpo stesso della società e lo attraversa e ne fluisce fino allo spettatore. […] La poesia non è una cosa morta, ma vive una vita clandestina.»

È a questo punto che si inserisce l’intuizione o la provocazione di Massimo Munaro, regista teatrale. Massimo Munaro e il Teatro del Lemming propongono un nuovo tipo di operazione  drammaturgica: il mito, la fiaba, la tragedia, diventano “attuali” per tutti perché vissuti in presenza, in prima persona, sulla propria pelle e attraverso i propri sensi.

Il suo Teatro dello Spettatore, vuole essere una provocazione nei riguardi della crisi di committenza del teatro contemporaneo italiano (come già aveva presagito Edoardo Sanguineti). Si tratta di fare teatro in maniera del tutto innovativa, mirando a focalizzare l’attenzione sugli spettatori e non sugli attori, dando loro ogni priorità e coinvolgendoli in un processo creativo soprattutto nel momento della realizzazione scenica (durante la quale il soggetto recettore viene invitato ad abbandonare ogni passività per contribuire alla rappresentazione). Così facendo lo spettatore diventa anche committente, portatore attivo di domande, a cui il teatro è chiamato a dare delle risposte come in una sorta di democrazia in cui a prevalere sono  i rapporti diretti.

Il Teatro del Lemming è una compagnia di Rovigo che da alcuni anni, propone spettacoli teatrali che coinvolgono lo spettatore nella drammaturgia mitologica, un viaggio nel teatro e nel mito. Privi di ogni tipo di accessorio o di strumenti più o meno tecnologici, gli spettatori vengono invitati a rivivere su se stessi il mito dell’eroe greco. In Odisseo, ad esempio, i protagonisti divisi in gruppi vengono condotti in diversi luoghi degli scavi archeologici di Ostia; ogni spettatore intraprende il viaggio di Ulisse da Troia ad Itaca incontrando e rivivendo la nostalgia di Penelope, le Sirene, il Ciclope o la maga Circe. Ma non solo, dopo aver vissuto la morte dei soldati troiani tra le proprie braccia ed aver assistito al pianto delle donne, ci si ritrova ad Itaca dove attori e spettatori si rincontrano intorno ad una tavola imbandita. L’esperienza iniziata con il pubblico riunito, identificato con gli Achei, ha poi caratteristiche diverse per ognuno che può essere stato condotto da Hermes o da Atena; nel finale il pubblico arriva ad Itaca, brinda con vino rosso e poi viene congedato. Ripetutamente lo/gli spettatore/i viene messo al posto del personaggio/i principale/i, e può così occupare il posto di Edipo, di Amore o di Psiche, e via discorrendo. Gli attori facilitano solo il viaggio.

Ogni particolare viene pensato per fare incontrare la figura dell’attore con quella dello spettatore, in un dialogo non verbale bensì basato sul linguaggio del corpo che si verifica in uno spazio e in un tempo comuni. Contro la mera rappresentazione, contro una fruizione distaccata, specchio di una temibile passività, l’esperienza sensibile di incontro dei corpi riafferma il teatro come luogo privilegiato in cui la vita accade e non si simula soltanto. Lo spettatore è chiamato personalmente, attraverso i sensi, a rivivere l’esperienza mitica e a far suoi i sentimenti del protagonista. Ed è questo il motivo per cui gli spettacoli presuppongono sempre una partecipazione del pubblico limitata. E’ un teatro del corpo, che non esita a mettere lo spettatore anche in una condizione di vergogna o imbarazzo, mettendo a nudo ogni emotività.

Trenta persone per ricostruire l’identità molteplice e multiforme di Odisseo. Due soltanto per Amore e Psiche, la favola che, attraverso una sorta di iniziazione amorosa, narra la difficoltà della fusione con l’altro. Nell’Edipo una sola persona è introdotta nello spazio teatrale, privato degli effetti personali e reso cieco da una benda nera, è costretto a compiere o a condividere gesti diversi. E nel Dioniso, infine, nove spettatori guidati ciascuno da un partner di scena, si perdono in uno smarrimento fisico, in un crescendo di esperienze sensoriali.

Odisseo del Teatro del Lemming è una lunga e folgorante emozione che assale lo spettatore con la violenza di un’onda solitaria che in una notte calma come il mare d’estate ti scaraventa verso l’abisso tra correnti irresistibili e mostri delle profondità, per poi lasciarti risalire lentamente verso la superficie piatta incredulo e quasi disorientato […].

E’ un teatro che azzera il distacco tra spettatori e spettacolo, che annulla i ruoli per reinventarne altri, per dire al pubblico: “tu sei Ulisse” e chiedergli di viaggiare, carico delle colpe dell’eroe acheo e dei tormenti personali, attraverso cento diverse odissee, quant’è il numero degli spettatori. E’ il teatro da essere, non quello da vedere, in cui lo spettacolo deve significare esperienza dialettica, dinamica, fisica, sensoriale. Un teatro che parla alle emozioni, che chiede libere associazioni al pubblico e al testo […]. Una poetica impegnativa, quella del Lemming, sostenuta da un lavoro tecnico colossale sulle rigorose partiture per i bravissimi attori […] e sullo studio meticoloso dello spazio che qui si moltiplica in tre diversi percorsi simultanei, che troveranno la loro unità solo nella consultazione finale degli spettatori attorno a un banchetto di frutta e vino”. (Estratto rassegna stampa Il Messaggero, 18 agosto 2000, Gian Maria Tosatti)

L’arte si fa quindi interprete del pensiero dell’autore. Facendo un salto nel passato ad esempio, anche Luigi Pirandello si occupò di teatro; drammaturgo, scrittore e poeta italiano, vinse un premio Nobel per la letteratura nel 1934. Pirandello parla di “teatro dello specchio”, perché in esso viene raffigurata la vita vera, quella nuda, amara, senza la maschera dell’ipocrisia e delle convenienze sociali, come se lo spettatore si guardi in uno specchio così come realmente è, e diventi migliore. Definito come uno dei grandi drammaturghi del XX secolo, scriverà moltissime opere, alcune della quali rielaborazioni delle sue stesse novelle, che vengono divise in base alla fase di maturazione dell’autore: in una prima fase si occupa del teatro siciliano, poi di quello umoristico, poi del teatro nel teatro (o metateatro) e infine del teatro dei miti. Nella penultima fase, per Pirandello, il teatro deve parlare anche agli occhi non solo alle orecchie; decide quindi di mettere in atto una tecnica teatrale usata da Shakespeare, “il palcoscenico multiplo”, in cui vi può per esempio essere una casa divisa in cui si vedono varie scene fatte in più stanze contemporaneamente.  Il mondo si trasforma sul palcoscenico. Pirandello inoltre abolisce il concetto della “quarta parete”, cioè la parete trasparente che sta tra attori e pubblico per coinvolgere il suo pubblico che non deve essere più passivo poiché rispecchia la propria vita in quella agita degli attori sulla scena.

E’ nel dramma Ciascuno a suo modo (1924) che si incastrano tre diversi piani prospettici: quello della vita reale, quello della rappresentazione scenica e quello degli spettatori. Mentre in Questa sera si recita a soggetto (1929), affronta il problematico rapporto tra attori e regista, con il coinvolgimento del pubblico.

Nel ’25 Pirandello aveva assistito, in Germania, ad una messinscena del suo Sei personaggi, a cura del regista tedesco di scuola espressionista Max Reinhardt, ed è proprio contro tale tipo di regia che Pirandello si scaglia. La regia tedesca del periodo espressionista prevedeva l’eliminazione di qualsiasi elemento naturalistico, scenografie essenziali ed astratte, ed una recitazione, da parte degli attori, spersonalizzata e straniante. Il testo dell’autore, poi, perdeva valore a vantaggio della libera e soggettiva interpretazione datagli dal regista. Pirandello condivideva solo in parte tali posizioni: il rifiuto per le scenografie sovraccariche ed eccessivamente decorative, così come la libertà della messinscena attuata dal regista.

Agli attori, Pirandello raccomandava di sentire interiormente, immedesimarsi nel personaggio .

Il Codice dell’Anima

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI “CARLO BO” – URBINO – Laurea specialistica Editoria Media Giornalismo – Tecniche di relazione
Prof. Giuseppe Ragnetti

“Il Codice dell’Anima”

Dissertazione a cura di Noemi Bicchiarelli

…il genio può essere confinato dentro un guscio di noce
e ciò nonostante abbracciare tutta la pienezza della vita.
Thomas Mann

Esiste qualcosa, in ciascuno di noi, che ci induce ad essere in un certo modo, a fare certe scelte, a prendere certe vie, anche se talvolta simili passaggi possono sembrare casuali o irragionevoli.

Spesso si ha la vaga sensazione che esiste un motivo per cui la mia persona, che è unica e irripetibile, è al mondo, e che esistono cose alle quali mi devo dedicare al di là del quotidiano e che al quotidiano conferiscono la sua ragion d’essere. Tutti, presto o tardi, abbiamo avuto la sensazione che qualcosa ci chiamasse a percorrere una certa strada, questo “qualcosa” alcuni di noi lo ricordano come un momento preciso della nostra infanzia, quando si avverte un bisogno pressante e improvviso, come se si fosse colpiti dalla forza di un’annunciazione; altre volte la chiamata non è così vivida e netta ma ci restituisce la percezione del nostro destino.

Questo è ciò che in tante vite è stato smarrito, il senso della propria vocazione, ovvero che c’è una ragione per cui si è vivi. Attenzione, non la ragione per cui vivere, non il significato della nostra vita o la scelta di un credo religioso, ma la ragion d’essere, la sensazione che il mondo voglia, in qualche modo, che io esista, la percezione che ciascuno di noi è responsabile di fronte ad un’immagine innata. La nostra persona non è un processo o un evolversi, noi siamo quell’immagine fondamentale. Vocazione, destino, carattere, immagine innata, e cioè gli elementi che, insieme, sostanziano una teoria, la “Teoria della ghianda”, l’idea, cioè, che ciascuna persona sia portatrice di un’unicità che chiede di essere vissuta e che è già presente ancor prima di poter essere vissuta.

Ogni persona viene al mondo perché chiamata, questa l’idea di Platone tratta dal “Mito di Er”: prima della nascita la nostra anima sceglie un’immagine o una sorta di disegno che intende realizzare sulla terra e riceve un compagno che ci guida quassù, un daimon. Il daimon è l’angelo, l’anima, l’immagine, il destino, il gemello interiore, la ghianda, il compagno dell’esistenza, il custode, la vocazione del cuore. Esso avrà il compito di guidarci e orientarci verso il compimento del disegno che la nostra anima ha scelto, tuttavia, una volta nati, ci dimentichiamo tutto questo e pensiamo di essere soli alla mercé della vita e di essere nati vuoti. E’ il daimon che ricorda il contenuto della nostra immagine, gli elementi del disegno prescelto, è il nostro daimon a farci costantemente presente chi siamo e da dove veniamo, a mostrarci il nostro destino.

Tuttavia, se noi, a partire dall’infanzia, gli prestassimo attenzione, riusciremmo a riconoscere le nostre personali vocazioni, allineeremmo la nostra vita su di esse e capiremmo che ogni evento, positivo o negativo, che caratterizzerà il nostro percorso, concorrerà al compimento di tale disegno. Io e voi dunque siamo venuti al mondo con un’immagine che ci definisce, un’immagine innata, un’intenzionalità angelica o daimonica, un’immagine che ha a cuore il nostro interesse, perché ci ha scelti per il proprio.

Un disegno unico e irripetibile che è l’essenza della nostra vita e la chiama ad un destino, l’immagine è il nostro genio personale, il compagno e la guida memore della nostra vocazione. Il daimon ci motiva, ci protegge, inventa e insiste nella nostra vita con ostinata fedeltà, si oppone alla ragionevolezza facile e ai compromessi e spesso ci obbliga alla devianza e alla bizzarria, soprattutto quando si sente trascurato o contrastato; ci offre conforto ma allo stesso tempo può far ammalare il nostro corpo ricordando la sua presenza con sintomi o malattie, è legato ai sentimenti di unicità, grandezza, insoddisfazione, inquietudine del cuore. Vocazione, chiamata, i latini parlavano di genius, i greci di daimon e i cristiani di angelo custode. Essa può essere rimandata, elusa, non ascoltata o a tratti perduta di vista, oppure al contrario possederci totalmente; non importa, alla fine verrà fuori, perché il daimon non ci abbandona mai.

La teoria della ghianda si propone come una psicologia dell’infanzia, afferma con forza l’intrinseca unicità del bambino, il suo essere portatore di un destino, ogni bambino è infatti un bambino dotato e noi dovremmo imparare a guardarlo, tenendo presente la vocazione, il daimon, limitando così l’accanimento del nostro approccio al carattere e alle abitudini infantili; dislessia, ritardo cronico, distraibilità, iperattività, sono sintomi della “Sindrome da deficit dell’attenzione”, ma questo deficit ha un’altra faccia, poiché spesso i bambini così classificati, e anche gli adulti, sono quelli con intelligenza superiore alla media, inclini a perdersi in innumerevoli fantasie e con un’anima talmente aperta e sensibile, che l'”Io” non riesce a starle dietro e il loro comportamento risulta così disorganizzato. E allora, alé! Somministrazioni di Prozac, Ritalin, Xanax e la cura funziona, anche se il fatto che le pillole combattano il deficit, non significa che la causa ne sia confermata, le stampelle funzionano, però non spiegano la mia gamba rotta.

Ma cosa sta facendo il daimon che non sta leggendo, non sta parlando, non sta rispondendo alle aspettative? Per scoprirlo occorrono molta pazienza e una forte percezione immaginativa. Ecco allora che non si parlerà più di patologia, ma di eccezionale, si userà l’espressione “fuori dal comune” piuttosto che “anormale” e invece che storie cliniche lo psicologo leggerà storie di esseri umani. C’è bisogno di uno sguardo nuovo per ripristinare il senso e l’importanza della nostra vita, è necessario ristrutturare la nostra percezione, vedere il bambino che eravamo e l’adulto che siamo.

I nostri genitori non sono né artefici della nostra vita, né colpevoli dei nostri problemi, noi siamo vittime dell’ideologia del genitore, la superstizione parentale ci distoglie dalla nostra ghianda riportandoci da mamma e papà; i genitori dovrebbero dare ascolto e importanza al loro daimon senza sottrarsi al compito che la ghianda gli ha assegnato nella loro vita, se invece un figlio va a sostituirsi ad esso, prima o poi proveranno risentimento per lui, finiranno addirittura per odiarlo. Possono dunque due persone infelici trasmettere felicità? Soltanto un daimon che riceve ciò che gli spetta può trasmettere un effetto di felicità all’anima di un bambino.

La ghianda ha bisogno di un mentore, una persona che apra il suo cuore e percepisca l’immagine che c’è nel cuore dell’altro, l’occhio percettivo è infatti quello del cuore. Diventi mentore se la tua immaginazione sa innamorarsi della fantasia dell’altro; per cambiare il modo di vedere le cose, bisogna innamorarsi, allora la stessa cosa sembra del tutto diversa. Per vedere la ghianda occorre avere occhio per le immagini, occhio per lo spettacolo, per la fantasia, e avere il linguaggio giusto per dire ciò che vediamo.

I nostri fallimenti in amore, nelle amicizie, in famiglia, spesso sono riconducibili a fallimenti della percezione immaginativa; quando non guardiamo con gli occhi del cuore, allora sì che l’amore è cieco, perché in quei casi non sappiamo vedere l’altro come portatore di una ghianda. Mettiti nei panni di tuo marito, di tua moglie, di tuo figlio, di un tuo amico, immagina quello che provano, come sarebbe essere loro, immagina! Forse se guardi meglio con l’immaginazione riuscirai a scoprire un cuore di verità nel loro comportamento; la percezione immaginativa richiede grande pazienza. Tale percezione conferisce una benedizione, mantiene in vita l’essenza di ciò che è percepito e quando essa vede negli affetti del cuore, allora ci viene dimostrata la verità di tale immaginazione. Il figlio pretende, sbagliando, la visione, la benedizione e gli insegnamenti rigorosi del mentore, egli pretende che il genitore sia il suo mentore, ma i due ruoli sono ben differenti.

Un clima negativo si potrebbe però creare quando i nostri genitori non hanno nessuna fantasia su di noi, quando cioè si viene a creare un ambiente neutro e oggettivo, non si è bravi genitori quando ci si astiene dal fare fantasie sui figli, quando si ritiene che ciascuno deve vivere la propria vita e decidere autonomamente, poiché ciò creerà solo distanziamento. I figli non fuggono dall’autoritarismo dei genitori, essi fuggono dal vuoto insopportabile di vivere in una famiglia senza altre fantasie che il fare compere, cenare insieme o lavare la macchina; il grande valore delle fantasie dei genitori per i figli, è quello di obbligarli ad opporsi, a riconoscere che il loro cuore è diverso, eccentrico, insofferente magari; la ghianda ha bisogno di personificazioni viventi della fantasia, persone in carne ed ossa il cui comportamento, modo di vestire, di parlare, porti una sana ventata di immaginazione. Le fantasie dei genitori smaschereranno la superstizione parentale e ci aiuteranno a vedere che io non sono condizionato dai miei genitori, non sono il loro risultato. Il resto non significa amare, perché quando si ama si è pieni di fantasie, di idee (e di ansie).

La ghianda è una realtà invisibile, l’invisibilità è un’idea che turba, da sempre vi è la smania di ingabbiare l’invisibile con metodi visibili, da sempre tutti i corpi immaginali finiscono per fondersi in modo indiscriminato nel mostruoso, l’invisibile diventa l'”alieno”. Il mondo invisibile è il mondo del demonio e bisogna starne alla larga, non posso conoscere ciò che non riesco a vedere; ciò che non conosco temo; ciò che temo odio e ciò che odio voglio distruggere. Sicché, la mente razionalizzata preferisce separare il visibile dall’invisibile, preferisce l’abisso al ponte tra i due mondi, ma la loro compresenza è ciò che alimenta la nostra esistenza e noi arriviamo a riconoscere la straordinaria importanza dell’invisibile, soltanto quando ci lascia soli.

Anche la vita di tutti i giorni si svolge sullo sfondo di elementi invisibili: le forme di energia, le entità della teologia di fronte alle quali ci inginocchiamo, gli invisibili ideali, il tempo,”qualcuno l’ha visto di recente?”. Viviamo circondati da una folla di invisibili che ci danno continuamente ordini: i valori della famiglia, i rapporti umani, uno spietato gruppo di parole mitiche chiamate successo, dominio, economia….nonostante questo tendiamo sempre a separare le due entità e a non vedere l’invisibile davanti a noi. La modalità per percepire l’invisibile, e dunque per percepire la ghianda, è l’intuizione. Intuizione in psicologia significa “conoscenza diretta e non mediata”, è una percezione chiara, fulminea e completa; le intuizioni arrivano senza che vi siano passaggi logici coscienti o pensieri riflessivi, esse arrivano e basta, non le facciamo noi, giungono come un’idea improvvisa, un giudizio certo, un significato colto al volo. Come una rivelazione esse arrivano tutte in una volta, istantaneamente, prescindendo dal tempo.

E’ essenzialmente intuitiva ad esempio la nostra percezione delle persone, noi assorbiamo l’altro tutto insieme, vestiti, corporatura, gesti, postura, voce, espressione, accenti, carnagione, caratteri etnici, sociologici, di classe….tutti questi dati si offrono istantaneamente all’intuizione. Lo stesso vale per un evento, è come se l’intuizione fosse portata da quell’evento o sia insita in esso, un amico mi dice una cosa ed io zac!, ho capito tutto, ho colto al volo ciò che voleva dirmi; leggo pochi versi di una poesia e “vedo” ciò che intendeva il poeta. Le intuizioni possono essere poi completamente sbagliate, essendo chiare, veloci e immediatamente convincenti, ce lo insegnano ogni giorno i nostri atti più tempestivi, come quando ci innamoriamo della persona sbagliata, muoviamo accuse ingiuste o ci diagnostichiamo malattie inesistenti.

Forte è la tensione tra intuizione ed istruzione, non a caso tutti i personaggi più eminenti della nostra epoca presentavano gravi problemi scolastici, lo scarto tra l’innata abilità intuitiva del bambino e l’istruzione formalizzata della scuola, diventa sempre maggiore, la scuola non è infatti in grado di percepire l’invisibile presente nel bambino. La ghianda traccia il confine e nessuno può obbligarla ad oltrepassare il territorio che non è di sua competenza, è come se la quercia non potesse piegarsi, non potesse fingere di essere un pioppo; la ghianda così come porta doni, allo stesso modo pone limiti, e solo se l’insegnante lascia spazio all’intuizione nei suoi metodi, allora si creerà un ponte verso la scuola. Chi può decidere dove la ghianda impara di più o dove l’anima ti mette alla prova? Gli esami sono un esempio dove la nostra vocazione viene verificata, il mio daimon vuole davvero la strada che ho scelto? La mia anima è davvero coinvolta?

Se il riuscire bene in un esame, può rappresentare una conferma, al contrario, una bocciatura può essere il modo in cui il daimon ci fa sapere che abbiamo preso la direzione sbagliata. Spesso la sua intuizione non può assoggettarsi alla normalità dell’istruzione e allora diventa demoniaca, la tristezza dei bambini sui banchi di scuola, non è sempre un esempio di fallimento, bensì, è un modello dell’operare della ghianda. La totale incomprensione o sintomi quali allergia, dislessia, asma, iperattività, sono tutti disturbi che dimostrano l’ostinato attaccamento del bambino al suo daimon, alla sua intuizione, e l’allontanano sempre di più dalla scuola; dalla scuola, sì, ma non dall’imparare, dall’istruzione, ma non dall’intuizione.

Bisogna saper guardare all’invisibile, la porta verso i fattori invisibili presenti nei disturbi dovrebbe sempre restare aperta, nel caso sia poi un angelo a bussare e non una malattia. Per vederlo però occorre occhio per l’invisibile, è impossibile scorgere l’angelo se prima non abbiamo un’idea dell’angelo, il bambino allora diventa solo stupido, caparbio, svogliato o addirittura malato; è necessario essere istruiti nell’arte di vedere, allora tutto ad un tratto l’invisibile diventa visibile, è lì, sotto l’occhio che abbiamo lasciato aperto. Del resto c’è in tutti noi un forte desiderio di vedere al di là di ciò che ci insegna la nostra normale vita/vista.

Lo stesso vale per l’amore, l’innamoramento ci da la sensazione che si tratti di una chiamata del destino, di una complessa e invisibile immagine che portiamo nel cuore. L’esperienza dell’amore trascende ogni condizionamento, pretende devozione al di là di ogni vincolo, è inesorabilmente legato alle fantasie ed è idealizzazione, non imitazione, non la replica del noto, bensì, l’aspettativa dell’ignoto.

La mappa amorosa attraverso la quale costruiamo elementi base del nostro innamorato/a ideale, ancor prima che ci passi davanti o attraversi la nostra strada, può spiegare le cose visibili, i fianchi morbidi, gli occhi azzurri o una bella automobile, ma l’amore s’innamora anche di “qualcos’altro” che è invisibile. “Lui/lei ha quel certo non so che…”, “Il mondo cambia quando sono vicino a lui/lei…” questo sulla mappa non c’è, qui siamo di fronte al mondo della trascendenza dove le realtà normali sono molto meno convincenti delle cose invisibili. Per avere la prova lampante dell’esistenza del daimon basta innamorarsi una volta. Lì ci sei, sei presente tutto intero e in nessun altra occasione ti senti così sopraffatto dal tuo essere e dal tuo destino e in nessun altro momento ogni tuo gesto si rivela così chiaramente ispirato da un daimon.

L’amore promuove la crescita dell’individualità, è una forza che aiuta a creare o potenziare il sé, l’individualità e l’autonomia del daimon; l’innamoramento è un evento raro e fortuito, colpisce ad una profondità incredibile, inspiegabile, e quando accade, accade esclusivamente per la singolarità dell'”oggetto” che è quella persona, non un’altra. Non gli attributi fisici, non le virtù, la voce, i fianchi, il conto in banca, semplicemente l’unicità di questa persona che l’occhio del cuore ha visto fra tante.

In ciascuno di noi è racchiusa un’immagine del cuore, ciò è particolarmente provato quando cadiamo preda dell’amore, perché lì, in quel momento, siamo aperti a dimostrare chi realmente siamo, lasciando intravedere il genio della nostra anima: “E’ innamorato, non sembra più lui!”, “Sembra un altro…dev’essere innamorato!”. L’incontro tra due innamorati è un incontro di immagini, uno scambio d’immaginazioni, quando ciò accade incominciamo a vedere tutto in modo diverso, immaginiamo il mondo in modo romantico e quando lo facciamo intensamente, iniziamo ad innamorarci delle immagini evocate davanti all’occhio del cuore, le nostre immagini ci attirano sempre di più dentro il nostro rapporto.

Ma se tutti hanno una propria individualità, una strada, un destino, un’anima, un angelo, esiste un angelo mediocre? Una vocazione alla mediocrità? Per molti la vocazione è quella di starsene in disparte, di porsi al servizio della via di mezzo, di restare in mezzo alla truppa. E’ la vocazione all’armonia dell’uomo. L’individualità non si può identificare con l’eccentricità. La vocazione accompagna la vita e la guida in maniera impercettibile e in forme meno vistose di quelle a cui si assiste in certe figure esemplari, siamo tutti chiamati, non solo i prediletti. Nessuna anima è quindi mediocre, per quanto convenzionali siano i nostri gusti, per quanto medie siano le nostre prestazioni, non possiamo far coincidere la mediocrità dell’anima con tutto questo o con un mestiere mediocre che una persona fa, poiché potrà essere mediocre il lavoro in sé, ma non il modo in cui è svolto.

Io sono il mestiere che faccio e il mio carattere non è quello che faccio, ma il modo in cui lo faccio, ogni persona, pur svolgendo la stessa cosa, è diversa, perché ciascuno ha un daimon individuale; la teoria della ghianda afferma che ciascuno di noi è un eletto, una ghianda unica e irripetibile che caratterizza ogni persona. Dentro ciascun caso c’è una persona, dentro una persona c’è un carattere e ogni carattere è un destino. Il fatto di seguire il daimon, si traduce nell’avere carattere, il daimon rappresenta i nostri tratti comportamentali più profondi, frena gli eccessi e l’arroganza e ci induce a restare fedeli ai paradigmi della nostra immagine; tali paradigmi si manifestano nel modo in cui ci comportiamo, per trovare il nostro genio quindi, dobbiamo guardare nello specchio della nostra vita, l’immagine visibile renderà manifesta la nostra verità interiore.

Tu sei il modo come sei, il “modo come”, il destino del daimon è nostra responsabilità, egli ci ha scelto come sua dimora, ma ciò non significa che esso si preoccupi del nostro destino, siamo noi che dobbiamo allineare la nostra condotta alle sue intenzioni, poiché le cose che facciamo nella nostra vita hanno effetti sul nostro cuore, modificano la nostra anima e riguardano il nostro daimon. Con il nostro comportamento noi facciamo anima. Come il daimon chiamandoci ci dispensa un bene prezioso, una benedizione, così facciamo noi con lui attraverso il modo con il quale lo eseguiamo.

L’ispirazione ci fa paura e tale paura ci impedisce di tornare a sentire la grandezza nella ghianda di ognuno di noi, indipendentemente dalla sua mediocrità. In una società, in cui le persone fuori dall’ordinario, i tipi strambi, bizzarri, sono rinchiusi in centri, in ospizi, impasticcati con sostanze curative, riabilitati in gruppi; in un’epoca in cui qualsiasi cosa risulti troppo diversa viene emarginata, è importante capire che anche la via di mezzo è una strada per la grandezza, che anche la mediocrità è un valore nel quale il daimon può manifestarsi, dietro ad ogni esempio di mediocrità, c’è comunque un carattere specifico, quella “ciascunità” della ghianda. La nostra società, i nostri media, sanno invece celebrare, esagerare, adulare, ma non sanno immaginare, e dunque non sanno vedere.

Esistono anche caratteri malvagi, esiste una vocazione al delitto, esiste il male; la ghianda può albergare persino un cattivo seme ed un cattivo seme che incontra una personalità, un carattere, che non gli oppone né dubbi, né resistenze, da origine al demone, al male supremo. Non molto c’è da stupirsi poiché questa è l’età della psicopatia, oggi lo psicopatico non si aggira più furtivo come un topo di fogna nei vicoli bui, ma vince le elezioni, buca lo schermo televisivo, amministra nazioni o multinazionali, prende decisioni che sconvolgono intere collettività…è una maschera quella che il demoniaco indossa oggi e continuerà ad indossare domani.

Se per il tuo tipo di personalità la ricompensa che trai dalla violenza impulsiva, dall’omicidio premeditato, dalle tutte le tue cattive azioni, supera in valore la punizione prevista, ti ci butti automaticamente; se poi come accade oggi incontri addirittura una sorta di successo, allora aumenterà in te la convinzione di essere sulla strada giusta. Anche il potenziale criminoso dello psicopatico appartiene al daimon ed è dato con la ghianda, i suoi delitti non sono tanto il risultato di una scelta, quanto di una necessità; tale necessità può comunque essere dirottata, inibita, soffocata, sublimata. Il primo passo da fare per toglier forza al cattivo seme è quello di riconoscerlo pienamente, riconoscere cioè che la ghianda, perfino come cattivo seme, è la più profonda forza motivante della vita.

Il cattivo seme dopo essere stato riconosciuto dovrà poi essere sedato attraverso rituali e rivolto al servizio della collettività; un esempio sono ex detenuti che entrano nelle scuole e spiegano ai ragazzi come opera il cattivo seme, cosa vuole, che prezzo esige e come aggirarlo. Sono riti che oltre a proteggere la società, integrano i demòni, scorgono il daimon nel demonio. La ghianda si manifesta quindi non soltanto come angelo che guida, ammonisce, protegge, consiglia, esorta e chiama, ma sa anche esprimersi con una violenza implacabile.

Il vero concetto di vocazione prende dunque anima e corpo attraverso questa teoria insolita, la teoria della ghianda. Dovremo imparare a vedere la ghianda non più solo come seme o frutto della quercia, essa infatti fin dai tempi antichi è considerata alimento primordiale, è metafora del nostro nocciolo interiore di cui noi stessi ci nutriamo, vocazione dunque, come primo nutrimento della psiche.

La stessa quercia anticamente era considerata un albero ancestrale magico, albero paterno e materno, albero che nella sua forma di ghianda conteneva in nuce la verità; quercia come albero dell’anima, poiché offriva rifugio alle api che vi custodivano nel suo tronco il miele, ingrediente del nettare, bevanda degli dei; quercia come albero grande e saggio, che conosce ciò che all’occhio comune è nascosto, tale conoscenza potrà poi essere rivelata solo a coloro che sanno ascoltare. La ghianda quindi è vita piena in potenza, cioè vita non vissuta, è necessità, è immanenza che attira a sé occasioni, opportunità, conferendo loro lo scopo che meritano.

Non sempre infatti le sue attenzioni sono rivolte a ciò che crediamo sia meglio per noi stessi, ma piuttosto a ciò che è bene per la nostra anima e per la sua crescita spirituale. Dove noi non cogliamo il senso, è proprio lì che essa acquista il suo significato più autentico.

Ecco perché è così difficile comprendere la vita, persino la nostra. “Le folate che ci trattengono sono diversivi? O hanno ciascuna il proprio particolare scopo? Contribuiscono, prese tutte insieme, a far avanzare la barca? Magari verso un altro porto?”, ciò che conta non è tanto stabilire se un’interferenza abbia o no uno scopo, è importante, piuttosto, guardare con occhio sensibile ad esso e cercare il valore dell’imprevisto.

Ciò che spesso vengono chiamati incidenti nient’altro sono che percorsi, tappe obbligate, prove che, anche se non comprese o metabolizzate, aiutano a rafforzare l’integrità della forma dell’anima, aggiungendovi perplessità, sensibilità e vulnerabilità. Esiste infatti un’arte del crescere, cioè discendere: quanto più si discende in noi stessi tanto più la crescita sarà sana, equilibrata e in armonia con l’universo.

Se ognuno di noi con cuore aperto si lasciasse camminare senza indugio, si abbandonasse all’ascolto di un sé autenticamente profondo, percorresse odorando le vie dell’anima, oltrepassasse con lo sguardo il visibile, allora gli errori, le scelte sbagliate, le strade mancate, forse acquisterebbero più senso, perché tutto è per ciò che deve essere, tutto è necessario e noi così siamo, non potevamo essere altrimenti.

Il daimon guida la nostra vita e le nostre scelte. Non è una questione di natura o di cultura, di patrimonio genetico o di influssi ambientali, di infanzia e genitori inadeguati: il dipanarsi delle nostre esistenze è guidato da qualcos’altro che la psicologia scientifica non riesce a focalizzare, perché non si tratta di entità visibili e misurabili. Come la ghianda, anche il daimon e l’anima sono metafore del piccolo ed appartengono al mondo degli invisibili, l’anima infatti non è calcolabile, non è una forza o una sostanza, non ha nulla di corporeo e dunque la natura del daimon e il codice dell’anima, non possono essere compresi con mezzi fisici ma solo con un pensiero aperto e indagatore, un sentimento rivolto al sacro, un’intuizione evocativa e una forte immaginazione.

Il fatto di cercare la ghianda influisce sul modo di vedere noi stessi e gli altri e ci permette di scoprire un po’ di bellezza in quello che vediamo, e dunque ce lo fa amare. Amare questa vocazione e convivere con il suo esigente amore per noi, unirci ad essa finchè morte non ci separi (ammesso che la morte sia la fine), significa considerare la nostra persona come un esempio di tale vocazione, il nostro destino come una manifestazione di un daimon, solo così placheremo le nostre ansie, le nostre paure, la tristezza, l’ossessione di trovare risposte a domande sbagliate; la ricerca della felicità è tutt’altro e l’intera vita non è soltanto un processo naturale, è anche, e forse più ancora, mistero. Ecco il destino, il codice dell’anima, la sua melodia infinita che chiede di essere ascoltata, compresa, abbracciata. Vita che assume significato nella misura in cui realizza la meraviglia cui è chiamata. Stupefacente e appassionante.

…In ultima analisi, noi contiamo qualcosa solo in virtù dell’essenza che incarniamo, e se non la realizziamo, la vita è sprecata.
C.J.Jung

…dal Pettegolezzo all’Opinione

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI “CARLO BO” – URBINO – Laurea Specialistica Editoria Media Giornalismo – TECNICHE DI RELAZIONE – Prof. Giuseppe Ragnetti

“…dal Pettegolezzo all’Opinione”

Elaborato scritto di Francesca Di Felice

INDICE

  1. Che cos’è il pettegolezzo
  2. Le funzioni del pettegolezzo
  3. Le dicerie
  4. Opinioni
  5. La Tecnica Sociale dell’Informazione
  6. Mezzi di comunicazione e pettegolezzi
  7. Bibliografia

Introduzione

Pettegolezzi, voci, chiacchere … a chi non è mai capitato di essere Oggetto o Soggetto di gossip?

Questo breve lavoro nasce con il proposito di presentare la pratica quotidiana del pettegolezzo come insita alle relazioni sociali, evidenziandone i meccanismi di costruzione paragonati a quelli in cui si formano le Opinioni all’interno di un gruppo sociale.

Grazie alla Tecnica Dell’Informazione sociale di Fattorello colui che riceve un messaggio ha pari dignità e capacità di opinione di colui che informa, e così l’autore di pettegolezzi ha l’importante ruolo di mediazione e in-formazione che spetta al giornalista.

Un breve confronto che permette di capire quanto ognuno di noi possa essere responsabile attivamente all’interno dei processi di comunicazione.


“Il pettegolezzo è la voce della verità (..)
E questa voce è magica (..)
Il pettegolezzo è leggero,
freddo e in tal modo assurge
a una sorta di obiettività:
la sua voce sembra insomma
doppiare la voce della scienza

Roland Barthes

Che cos’è il pettegolezzo

Per ‘voce’ ‘rumore’, ‘pettegolezzo’, ‘chiacchera’ si intendono cose diverse. Etimologicamente essi sono effetti: ossia suoni che hanno una intensità e durata variabili. Tuttavia voce e rumore non hanno riferimento solo all’effetto bensì anche alla causa di quell’effetto. La voce infatti rimanda ad un processo di diffusione a catena, mentre il rumore a un processo sconnesso, esitante, limitato localmente. Dal vocabolario il termine pettegolezzo viene invece definito come una “chiacchera inopportuna o indescreta e malevola” e l’origine etimologica è stata individuata nell’antico verbo veneto “petegolàr” che significava emettere piccoli peti (e forse questa espressione ha dato vita a un riferimento all’incontinenza verbale). Oggi il termine ha corrispondenza sia al contenuto che all’oggetto della comunicazione, come storie di bassa lega messe in circolo di proposito da qualcuno per calunniare qualcun altro.

Il pettegolezzo può essere considerato a tutti gli effetti una pratica culturale della vita quotidiana, analizzabile tramite le tipologie dei frames comunicativi nei gruppi ristretti, degli stereotipi, delle modalità di credenze, della sua funzione fàtica.

Gli interlocutori, per trattare il pettegolezzo come forma di comunicazione, devono avere una competenza che implichi la capacità di riconoscere attraverso particolari indicatori quando le azioni comprese intersoggettivamente sono orientate in modo da considerare la conversazione un pettegolezzo. Questa competenza può essere considerata una forma di comprensione quotidiana.

Se si osservano le forme del parlare nella vita di tutti i giorni, soprattutto quelle informali si presentano spesso come narrazioni di storie non sempre sviluppate interamente. Gli eventi sociali vengono tematizzati e raccontati in vario modo, e ogni conversazione di pettegolezzi forma un contesto in cui il significato non è altro che il risultato delle azioni dei singoli partecipanti orientati verso un obiettivo.

Oggetto del pettegolezzo

Oggetto del pettegolezzo è in genere la persona riguardo la quale si spettegola, che viene ovviamente esclusa dalla partecipazione attiva della comunicazione, la sua presenza è marcata solo come oggetto delle chiacchere. Una condizione strutturale del pettegolezzo è sicuramente la conoscenza da parte del destinatario e dell’autore della persona assente che costituisce l’oggetto del pettegolezzo. Un’altra condizione strutturale è la variabile di segretezza reciproca che in un qualche modo è richiesta. 

L’autore del pettegolezzo

È il regista che manovra le informazioni e le trasmette. Il termine inglese gossip infatti non designa solo il pettegolezzo ma anche la persona che spettegola. La posizione dell’autore è intermediaria tra la non conoscenza e la familiarità con il soggetto\oggetto del pettegolezzo. Della sua importante figura di intermediazione ne torneremo a parlare più avanti.

Il destinatario del pettegolezzo

La figura del destinatario non è affatto passiva in quanto chi riceve il pettegolezzo è un partecipante attivo che mostra la volontà di ascoltare e di interagire con l’interlocutore. È soltanto grazie al fatto che esiste un legame specifico tra l’autore e l’oggetto del pettegolezzo che la conversazione diventa infine pettegolezzo. L’oggetto deve essere un conoscente del destinatario almeno indirettamente, dato che la notizia può essere rilevante per lui solo se non riguarda un estraneo. Il rapporto tra l’autore e il destinatario è fortemente modellato dal tipo particolare di informazione che viene trasmessa nell’interazione. Questa relazione di co-informazione unisce i partecipanti in un rapporto di complicità e incide sulla loro relazione fino all’ultimo anche attraverso  lo stile e il tono di scambio che è caratterizzato dalla parità.

Le funzioni del pettegolezzo

Robert Paine nel suo studio “Gossip and Transaction” affermò che il pettegolezzo è innanzitutto un modello di comunicazione informativa che riguarda essenzialmente lo scambio di informazioni rilevanti per i partecipanti dello stesso gruppo sociale. Il pettegolezzo può essere considerato cioè un’istituzione che crea e distribuisce informazioni in base ad interessi individuali. Una forma di azione strategica insomma, il cui scopo primario sarebbe quello di attribuire una validità agli interessi delle persone che spettegolano. Quindi il pettegolezzo, per  il suo modo di trattare l’informazione, sarebbe una tecnica e una risorsa per la gestione dell’informazione dall’interno del gruppo.

Paine è responsabile anche dello studio sull’approccio strategico in prospettiva transnazionale, che spiega il fenomeno del pettegolezzo come un genere di comunicazione informale e un meccanisco per favorire e proteggere gli interessi individuali. Ciò va in contrasto con gli approcci che vedono nel pettegolezzo una forma di preservazione del gruppo (per esempio quello di Gluckman) perché per Paine, in linea con la teoria drammaturgica di Goffmann, le dicerie sono delle forme di controllo dell’informazione per scopi personali, manipolate per influenzare le impressioni che si possono formare.

Forse certe situazioni e certi contesti contribuiscono a determinare la pratica del pettegolezzo e questa prospettiva è strettamente legata al modello teorico della collettività di Turner e Killian secondo cui l’azione di massa deriva da una definizione collettiva di situazione ambigua.

Oltre ad avere una funzione strategica per l’informazione, il pettegolezzo ha funzioni di tipo:

  • Espistemologico, perché si interroga sui valori di verità, sulla veridicità della fonte e sul modo di costruire la verità partendo da informazioni incontrollabili.
  • Sociale, perché essendo implicato nell’intersoggettività mette a fuoco le relazioni sociali.
  • Etica, riguardando tutte le forme di sentimenti, trasgressioni, tradimenti che possono esservi focalizzati.
  • Fàtica, perché mantiene vivo l’interesse nell’interazione e non la fa cadere o chiudere.

Le Dicerie

Diceria e pettegolezzo testimoniano come le persone intendono dare un senso al loro mondo e accordare fiducia al carattere morale e al significato degli eventi. 

Mentre però il pettegolezzo è una forma di interazione sociale che dipende dalla gestione strategica dell’informazione, la diceria (rumor) è stata definita da Allport e Postman come una proposta di credenza trasmessa da persona a persona senza che vi siano criteri di veridicità certi. Essa collega il presente immediato al passato, del quale si serve come bacino di ricorrenza. Una sua caratteristica distintiva è la collocazione attuale e locale, tratta quell’informazione detta contigente, sia simbolicamente che geograficamente.

Knapp ha classificato le dicerie in base alle motivazioni analizzando quelle che si diffusero negli Stati Uniti durante la Seconda Guerra Mondiale e giunse a raggrupparle in 3 categorie:

le dicerie fantasma che esprimono paure e ansie, le dicerie di fantasia che esprimono il desiderio della gente di realizzare un sogno sostenendo che gli eventi siano realmente accaduti, e quelle che portano disaccordo, socialmente nocive.

Le caratteristiche testuali delle dicerie mostrano come la loro brevità sia una proprietà fondamentale della loro forma narrativa. Ciò richiama due processi insiti nella diceria: uniformare e affilare. E’ chiaro a tutti che durante la trasmissione delle dicerie gran parte dei dettagli vengono dimenticati e altri esagerati, infatti l’affilamento è da intendersi come il lavoro di percezione selettiva che avviene durante la memorizzazione di un numero limitato di dettagli.

Un ulteriore aspetto della diceria è che spesso essa è introdotta da particolari frames, cornici testuali che possono rafforzare la credibilità dell’informazione o altre volte possono essere usate per prendere le distanze dall’informazione che si sta per dire, per non assumersi certe responsabilità.

Shibutani e successivamente Allport e Postman hanno espresso la “legge fondamentale della diceria” secondo cui il numero delle dicerie varia a seconda dell’importanza dell’argomento, moltiplicata per l’ambiguità dei dati realmente a disposizione. Se l’importanza dell’evento è nulla o privo di ambiguità, non vi sarà voce. Secondo Shibutani poi, le dicerie derivano dalla rottura dei canali di comunicazione normale e sono “un’improvvisazione cooperativa di interpretazioni”.

La diceria, per il suo essere così breve, legata al contingente e in cerca dell’adesione tempestiva è quindi intrensicamente simile alla notizia giornalistica, a cui si aggiunge il fatto di non essere sempre verificabile.

Pettegolezzo, diceria e moralità

Il legame tra pettegolezzo e conservazione della moralità è stato approfondito da diversi studiosi tra cui Herskovits e West i quali sostengono che il controllo religioso della morale agisce anche attraverso la condanna dei piccoli peccati altrui e la paura.  L’intreccio fra questione morale e pettegolezzo è altresì intricato a livello tematico, non a caso gli argomenti che interessano ai pettegoli sono per lo più quelli ad alto contenuto morale, come le trasgressioni o l’infedeltà.

Per Gluckman il pettegolezzo e le dicerie nei gruppi sociali più ristretti hanno l’importante virtù di mantenere l’unità, i valori e quindi anche la moralità di quel gruppo. Inoltre permettono di controllare i gruppi sociali concorrenti e gli individui che aspirano ad entrarci.

Pettegolezzo e maldicenza sono anche fonti di piacere, ma solo quando un individuo è accettato come membro di un gruppo acquista tale diritto di spettegolare : esso è una caratteristica peculiare dell’essere parte di una comunità. Il meccanismo della maldicenza riconferma e incrementa l’identità e l’esclusività del gruppo rispetto ad altri gruppi e quindi la coesione di un reale senso di comunità.

Gli individui membri di un gruppo sociale giudicano gli altri sulla base di stereotipi, cioè le rappresentazioni fatte della realtà nel tentativo di comprenderla. Sulla base di ciò che ha affermato Lippmann nella sua teoria, anche per quanto riguarda la trasmissione di dicerie e pettegolezzi è necessario tenere presente che gli individui non possono comprendere a pieno ciò che accade nella realtà e i loro giudizi  di opinione sono sempre permeati dagli stereotipi sociali nati dalla collettività di cui fanno parte.

Opinioni

Essendo pettegolezzi e dicerie espressione di opinioni soggettive maturate all’interno di un gruppo sociale, di seguito si specificherà quali sono le teorie costituive dell’opinione.

La teoria elaborata da Joen Stoetzel afferma che “opinare significa per il soggetto porsi socialmente in rapporto con il suo gruppo e con gli altri gruppi esterni” e che quindi essa è una “manifestazione che si concreta nell’adesione a determinate formule di un’attitudine che può essere valutata su una scala obiettiva delle opinioni”. Su una data questione quindi, si possono raccogliere molteplici formule di opinione, che provengono dalle singole elaborazioni dell’uomo su un determinato evento. Ogni soggetto infatti può esprimere un suo particolare punto di vista che dà forma all’opinione, la quale potrà essere condivisa da altri soggetti che vi aderiranno.

L’individuo che fa parte di un gruppo sociale eredita da esso diverse idee, credenze, modi di vedere l’universo e il mondo che si interpongono alla sua visione delle cose, ideali e sentimenti collettivi.

Questo suo essere sociale dell’individuo influenza chiaramente il suo modo di sviluppare opinioni. Affiliarsi ad un gruppo sociale significa identificarsi con gli stereotipi adottati da quella collettività  e comportarsi quindi in armonia con essi nel momento in cui l’individuo esprimerà una opinione.

Stoetzel ha affermato che esistono due modi di sviluppo delle opinioni: in un primo caso ci abbandoniamo ad un pensiero che non è il nostro e a cui abbiamo aderito, nell’altro caso invece sviluppiamo opinioni in relazione alle nostre attitudini personali. Quest’ultime però non possono avere un’autonomia psicologica perché dipendono dalle attitudini profonde della personalità le quali rilevano l’esistenza di principi comuni che dominano i pensieri.

Il pettegolezzo e la diceria, sia considerati come elementi di coesione o controllo del gruppo sociale, sono quindi un esempio di opinioni soggettive sviluppatesi dall’adesione agli stereotipi della comunità sociale di cui si fa parte. Come per le dicerie, l’opinione è frutto di una conoscenza soggettiva di fatti contingenti, uno specifico modo personale di spiegare un fatto, è provvisoria, aleatoria e intrattiene con la realtà legami piuttosto blandi.

Dal pettegolezzo all’opinione

Non c’è alcun ambiente sociale o professione che può sfuggire alla pratica dello scambio di ‘voci’, specialmente negli ambienti politici, intellettuali e nel mondo delle informazioni. Più regna l’incertezza e l’antagonismo, maggiore è lo stato d’animo di dubbio e più il meccanismo del ‘si dice’ e i giudizi di opinione sono rapidi a mettersi in azione. Il dubbio infatti è quel particolare stato d’animo che ci avvolge quando non riusciamo a trovare una risposta ad una domanda o ad uscire da una qualsiasi ambiguità esistenziale. L’inquietudine che accompagna il dubbio provoca quindi uno sforzo di ricerca della verità che sfocia in quei giudizi particolari, non veritieri chiamati appunto giudizi di opinione. Esprimere opinioni è così uno stadio per uscire dal dubbio nei riguardi di problemi contingenti.

Ma come è possibile che si passi dal pettegolezzo alla credenza o addirittura all’opinione?

Le credenze sono quell’insieme di rappresentazioni immagazzinate come descrizioni del reale che vengono attivate ogni volta che l’occasione è appropriata, generando l’indizio comportamentale dell’asserzione e assenso. In realtà molto dipende dal contesto. Nella maggioranza dei casi per esempio, il tema della voce risulta essere molto banale, e l’ambiente in cui ha luogo molto ristretto: in queste situazioni la consistenza della chiacchera difficilmente si irrobusisterà fino a raggiungere lo stato di credenza. Per contro, esistono situazioni in cui un certo contenuto si congiunge con un particolare contesto, tale che la voce riesce a forzare qualsiasi tipo di silenzio o barriera e venga amplificata.

Ovviamente la credibilità della voce dipende dalla natura particolare della persona che la trasmette e del messaggio che comunica. Il credere consiste nel riconoscere l’alterità e costruire un contratto fiduciario . Nell’appropriazione di un’informazione, colui che aderisce a quella particolare forma di opinione, accetta di credere al messaggio del Soggetto Promotore, abbandonando una sua posizione riguardo a qualcosa per fare credito al Destinatario.

Inoltre per essere considerato credibile, si deve poter supporre che l’enunciatore della voce creda nell’informazione sostenuta, e che si ritenga obbligato nei confronti del Recettore a non tradire la sua fiducia. E’ naturale che per essere credibile non basta affermare di dire il vero ma occorre avere alle spalle le prove della propria credibilità. Ecco quindi che chi ci riferisce una voce lo fa presentandosi come molto vicino alla fonte originaria dell’informazione, e anche se dice di non aver assistito direttamente all’evento in causa in compenso afferma di conoscere chi ha visto e sa ecc.

Il lessico usato per proporre la voce, è indicatore di neutralità descrittiva che lascia così aperta la possibilità di ritrattare (‘si dice che’), o rinforzo della credibilità con l’uso di vocaboli che testimoniano una presa di posizione (‘si assicura che’).

L’accettare un’informazione come vera dipende dallo schema di riferimento che ciascuno usa per valutarla come tale. Raramente poi, una voce ci giunge nuda e cruda: è sempre una rielaborazione di chi ce la trasmette che trasforma il rumore in voce, che a sua volta passa dallo stato sconosciuto a quello di conoscenza, dal privato al pubblico, dall’immaginario al reale. È così che una voce assicura la propria continuità trasformando le disposizioni a credere in credenze e poi, se le condizioni si prestano, in convinzioni.

Rumore/Proposte di credenza   >>>   Credenza   >>>   Convinzione

(scambi informali)                   (Memoria collettiva)          (Opinione pubblica)

Viene sottolineato così il legame esistente tra voce, credenza, convinzione e le rispettive casse di risonanza pubbliche : gli scambi di tipo informale per quanto riguarda la prima, ovvero i passaggi di informazioni da bocca a bocca; per quanto concerne la seconda la memoria collettiva, acquisendo una struttura solida  e durevole, e poi la convinzione legata all’opinione pubblica in quanto si consolida attraverso la coesione delle opinioni degli individui, coerentemente alle convinzioni presenti nella società di riferimento.  Nel processo di adesione\rifiuto di un individuo rispetto ad un’opinione esistono diverse fasi, la credenza può diventare una convinzione quando si aderisce totalmente ad un’opinione, finendo per considerarla propria anche se orginariamente non lo è.

Per opinione pubblica si intende quella relativa ad una collettività, il cui soggetto è rappresentato dall’insieme di persone che hanno quell’opinione e ritengono che altri la condividano. Questo soggetto coincide con il concetto sociologico di ‘pubblico’, cioè un gruppo dalle caratteristiche speciali, difficilmente definibile.

Ecco quindi che gli scambi di voci informali possono diventare credenze se acquisiscono una struttura statica, per poi sfociare in vere e proprie convinzioni allorchè l’individuo aderisce totalmente a quelle determinate opinioni, tanto da credere di possedere la verità.

Questo dimostra come l’opinione pubblica non necessiti per forza di estrinsecarsi nelle varie forme in maniera aperta, ma essa può formarsi anche tramite il passa-parola, le voci bocca a bocca. 

La tecnica sociale dell’informazione

La trasmissione di pettegolezzi e dicerie si basa ovviamente sulla comunicazione face-to-face che prevede una interazione diretta tra chi parla e chi ascolta.

In particolare da una parte abbiamo l’Autore del pettegolezzo e dall’altra il suo Destinatario. Essendo l’oggetto della comunicazione in questo caso un’informazione, si mette in atto il rapporto che intercorre tra Soggetto Promotore e Soggetto Recettore così come intesi da Francesco Fattorello nella sua Tecnica sociale dell’informazione. Egli ha affermato che il Soggetto Promotore è colui che ha l’iniziativa dell’informazione da trasmettere al Soggetto Recettore che la riceve attraverso un Mezzo. L’Oggetto dell’informazione, è così una forma, una rappresentazione e manifestazione dell’opinione sulla quale il Destinatario mira ad ottenere l’adesione del Recettore.

L’informazione è quindi una formula di opinione quale risultante da un processo di opinione.

Il pettegolezzo o diceria che vogliamo trasmettere è infatti frutto di una visione soggettiva di un evento, scaturita dal mancato rispetto delle norme sociali presenti in una determinata collettività.

L’autore del pettegolezzo ha l’importante funzione di mediatore nel processo di comunicazione, che spetta al giornalista nell’ambito della tecnica sociale. Il tecnico dell’informazione infatti non trasmette una visione della realtà oggettiva, ma in-forma nel senso di dare forma, manipolare l’oggetto che vuole trasmettere al suo recettore.  Il mediatore-affabulatore si colloca così tra ”l’obiettività” dell’accadimento e il suo Soggetto Recettore attraverso una doppia valenza di soggettività:  quella sua personale  e quella del destinatario dotato delle sue stesse facoltà opinanti e quindi capace di interpretare a sua volta l’interpretazione offertagli.

La notizia da trasmettere è così rielaborata a seconda dell’interpretazione del giornalista e delle caratteristiche degli individui ai quali lui si rivolge. Lo stesso è per l’autore di pettegolezzi, che trasmette visioni soggettive, opinabili, di fatti che ritiene veri e che vuole trasmettere nel modo più possibile vicino al suo recettore. È chiaro così che parlare di obiettività in entrambi i casi è fuori discussione: la soggettività delle informazioni si ripete all’infinito, sia che si tratti raccontare un evento o di raccontare un pettegolezzo.

L’influenza personale

La presunta passività di colui che riceve informazioni è smentita dal fatto che entrambi i termini del rapporto informativo si condizionano a vicenda. L’autore del pettegolezzo in quanto Soggetto Promotore è condizionato dal suo Recettore perché deve adeguarsi a lui nel modo di trasmettere le informazioni per permettergli di percepirle come tali, e viceversa il Recettore apprende notizie a seconda dell’interpretazione propostagli dal soggetto Promotore.

Il potere dell’influenza personale all’interno delle relazioni intersoggettive è stato riscontrato anche dagli studi condotti da Lazarsfield, Berelson e Gauder riguardanti il flusso a due fasi della comunicazione. Secondo questo modello infatti, avrebbero maggiore effetti persuasivi le relazioni interpersonali che i mezzi di comunicazione. Le conversazioni infatti sono più flessibili dei messaggi recepiti attraverso i media, possono essere modificate rispetto all’interlocutore che abbiamo di fronte.  Si è capito così che gli individui non sono isolati socialmente come pensavano le precedenti teorie sugli effetti dei media e soprattutto che i messaggi recepiti vengono sempre mediati e influenzati dalle relazioni sociali. Gli individui più preparati e informati assumono così il ruolo di Leader d’opinione di un gruppo sociale, essendo in grado di influenzare gli altri membri della comunità grazie alla loro conoscenza diretta.

Ecco quindi che l’autore del pettegolezzo si configura come una persona informata di ciò che succede all’interno di una comunità e quindi è il leader d’opinione, ma soprattutto una persona che grazie alle dirette relazioni sociali con gli altri membri del gruppo è in grado di far aderire gli altri alla propria opinione pur non avvalendosi di nessun mezzo di comunicazione se non sé stesso. 

Mezzi di comunicazione e Pettegolezzi

Il rapporto che lega i mezzi di comunicazione con le voci e i pettegolezzi è piuttosto ambiguo.

A volte i mezzi stessi si fanno paladini della lotta contro le chiacchere, mentre a volte si fanno prendere  e confondere da esse, sottostando ai loro meccanismi contorti.

Può capitare che i giornalisti, magari mossi da motivazioni personali, esagerino nello svolgere il loro ruolo di informatori divenendo dei veri e propri trampolini di lancio per l’amplificazione e l’espansione di voci di poca consistenza che però attirano un così vasto pubblico (pensiamo alla diffusione di periodici di stampa scandalistici). In questo caso si può affermare che siano gli stessi informatori a subire una sorta di manipolazione e di pressione. 

La curiosità che alimenta la gente rispetto ai fatti altrui, sia che si tratti di personaggi famosi come per la stampa scandalistica, che di perfetti sconosciuti protagonisti di un reality show, è il cardine del profitto economico che i mezzi di comunicazione sono in grado di fare sfruttando la potenza sociale del pettegolezzo.

Bibliografia

  • Fattorello F., La teoria della Tecnica sociale dell’informazione, a cura di G., Ragnetti, QuattroVenti, Urbino, 2005
  • Marcarino A., Il “pettegolezzo” nella dinamica comunicativa dei gruppi informali, QuattroVenti, Urbino, 1997
  • Ragnetti G., Opinioni sull’Opinione, QuattroVenti, Urbino, 2006.