La favola dell’oggettività – Perché non parliamo di fatti, ma di interpretazioni dei fatti

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI “CARLO BO” URBINO – Laurea specialistica in Editoria Media Giornalismo – Tecniche di relazione – Prof. Giuseppe Ragnetti

“La favola dell’oggettività – Perché non parliamo di fatti, ma di interpretazioni dei fatti”

a cura di Marco Guardanti

Spesso, si dice che uno degli imperativi della deontologia di ogni giornalista sia rispettare l’oggettività dei fatti. Ovvero, ogni giornalista che si rispetti dovrebbe riportare la realtà dei fatti esattamente così come si è verificata, senza alcuna influenza o interpretazione.

Assai meno di frequente, di contro, si realizza che questo è impossibile. Laddove vi sia comunicazione, c’è sempre interpretazione. Gli uomini non sono macchine, sono individui, soggetti. E sono tali sia che facciano i giornalisti, i professori, gli studenti o qualsiasi altra professione. Ciò implica che chiunque, nessuno escluso, detiene una formazione personale psico-sociale ben definita, cresciuta e cristallizzata sulla base di esperienze e valori consolidati del gruppo di cui si fa parte. Alla luce di essa, come si può parlare di oggettività?

Esaminiamo la questione in maniera generale. Se assistiamo ad un evento, uno qualsiasi, e poi riportiamo il resoconto di esso ad un interlocutore che non era presente, è lampante che non sarà l’evento stesso a proporsi a lui, quanto, piuttosto, una nostra interpretazione di esso. E centinaia sono i fattori che concorrono a definire e particolareggiare tale interpretazione.

Infatti, guardare una cosa da due punti di vista, significa, spesso, guardare due cose. E’ una questione di prospettive. Se assistessimo, per assurdo, allo stesso avvenimento per due volte, senza serbare memoria della precedente ma variando la posizione di osservazione, e poi seguitassimo a parlare dell’evento, ne daremmo due descrizioni differenti. Forse in minima parte, forse esponenzialmente, ma differenti.

Inoltre, nel riportare il nostro racconto a chi ci ascolta, ci serviamo di infiniti accorgimenti, inconsci o perfettamente consapevoli, con i quali diamo una forma, una “fisicità” all’idea che vogliamo trasmettere. Lo stesso evento di prima, tanto per intenderci, necessita di una sua forma comunicativa per essere narrato. E tale forma è mutevole e dipende da tanti fattori. Il mezzo che usiamo per trasmettere l’informazione, il destinatario a cui ci rivolgiamo, i rapporti che abbiamo con esso, eccetera.

Nondimeno, la nostra natura di soggetti permane sempre, anche quando presenziamo all’ormai celebre evento. Qualsiasi sia la specificità di esso, noi la filtriamo attraverso la nostra personalità, i nostri dettami culturali, le nostre idee, specie quelle non contingenti, ossia radicate, cristallizzate a livello educativo e valoriale. Per chiarire, ritorniamo all’esempio precedente, sempre ragionando per assurdo: se facessimo assistere due individui differenti ad un medesimo avvenimento, dalla medesima posizione, otterremmo comunque due racconti diversi, forse, chissà, persino incompatibili. Questo perché i nostri filtri agiscono anche se non badiamo loro, anche se cerchiamo di zittirli o nasconderli in vece della ricerca chimerica di una tanto decantata oggettività.

Diamo corpo al nostro esempio. Supponiamo, banalmente, che il nostro summenzionato evento non sia altro che l’avvenuto screzio tra un cane ed un gatto, quest’ultimo scacciato dal giardino del primo. Ci sono vari modi in cui il presunto “fatto” può essere riportato, confacenti alle attitudini personali di colui che narra. “Aggressione subita da un ignaro micetto indifeso” e “Finalmente Fido si è liberato dell’odioso gattaccio” sono due modi, esemplificativi quanto estremi e ironici, per dire la stessa cosa. Non per niente, leggere i titoli della più parte delle testate giornalistiche italiane si traduce in un esercizio simile.

Ma torniamo al nostro diverbio tra animali domestici. Nel descriverlo, anche laddove si cercasse di essere il più attinente possibile alla neutralità, quest’ultima non sarebbe che un miraggio. Se non altro, perché le idee personali premerebbero comunque per uscire. Supponiamo, nel caso, che tale notizia sia riportata da un accanito cinofilo, o, all’opposto, da un amante dei gatti. Il risultato, al di là di ogni tentativo o spinta verso la presunta neutralità, sarebbe, molto probabilmente, influenzato dalle vicende personali e dai personali gradimenti dei due narratori.

Non va dimenticato, infine,  che l’atto informativo avviene tra due soggetti, come detto sopra. E’ un soggetto colui che parla, o scrive, o filma; ma la stessa condizione è propria anche di colui che ascolta, o legge, o guarda. Gli schemi interpretativi che adottiamo quando esplicitiamo qualcosa, andranno, giocoforza, valutati e interpretati (sì, ancora!) da colui o coloro che interagiscono con noi. Pertanto, se le parole, il tono e i gesti da noi scelti per comunicare ci appariranno perfetti e funzionali allo scopo per cui li abbiamo chiamati in causa, alla valutazione altrui gli stessi procedimenti potrebbero risultare diversamente.

Poniamo il caso che il cinofilo di prima recensisca la cacciata del gatto all’amante dei felini, di cui sopra, ignaro del fatto. Quest’ultimo potrebbe non gradire l’interpretazione vittoriosa e positiva dell’evento, conferita dal “rivale”. Ecco che l’incomunicabilità dei soggetti potrebbe emergere senza troppe esitazioni, condannando i due a non capirsi, a non raggiungere una vera comunicazione (secondo l’etimologia, “comunicare” significa “mettere in comune”: è evidente lo scarto tra l’uso colloquiale del termine, inteso come informare). La ricerca di adesione, di accordo, di omologazione sociale che tanto ci sta a cuore quando intessiamo le nostre relazioni comunicative sarebbe, senza dubbio, ben ardua da ottenere, in questo caso. Ma non solo in questo. Possiamo ipotizzare infiniti motivi di conflitto nell’espressione di opinioni.

Se il cinefilo parlasse ad un altro cinefilo ed essi fossero, poniamo, rivali in amore, probabilmente le vicissitudini personali dei due occulterebbero ogni comunanza canina, finendo per creare attriti anche se, sulla carta, il discorso in sé non poneva alcun punto di contrasto. O, ancora, se il cinefilo fosse in compagnia della moglie, amante dei felini, e dovesse fare ad un amico il resoconto di quanto avvenuto, egli propenderebbe per una versione meno schierata dalla parte del cane, per quieto vivere coniugale. Eccetera.

Ora, ben consapevoli delle velleità e dell’ironia delle situazioni proposte, è tuttavia innegabile che esse siano, in qualche modo, confacenti alla realtà. La soggettività dei soggetti (e la cacofonia è ancor più esemplificativa) in gioco durante il processo della informazione è tale da influenzare l’intero processo, in ogni sua parte, in modi talmente viscerali che, spesso, sono difficili da prevedere a priori e spiegare a posteriori.

Un metodo più scientifico e meno scenografico per descrivere questo fenomeno, che mette una pietra definitiva sulle pretese di oggettività, è esemplificato nella teoria della tecnica sociale, di Francesco Fattorello.

In maniera chiara e scientifica, tale teoria esplica le influenze e le modalità di realizzazione dei processi informativi. Lo schema che ne deriva, intuibile e preciso, è il seguente:

x)

                                                             M

                                                 Sp                    Sr

                                                             O

Come si può vedere, l’oggetto reale x) di cui si dibatte, non è interno alla comunicazione. Noi non possiamo, in tutta evidenza, riprodurre concretamente lo stesso evento, mentre ne narriamo la nostra interpretazione. Ciò che possiamo fare, ed infatti facciamo di continuo, è dare una rappresentazione, una forma alla nostra opinione, (O) e trasmetterla attraverso un mezzo (M) adeguato, per ottenere l’adesione che agogniamo.

Le “S” poste davanti alla “p” di Promotore e alla “r” di Ricettore ci ricordano, e faremo sempre bene a non dimenticarlo, che il processo dell’informazione avviene tra Soggetti, eguali tra loro.

Siamo, in tutta evidenza, anni luce lontani dai modelli di comunicazione pseudo-matematici che propinano un Destinatario passivo, subordinato ad un’Emittente quasi onnipotente, a livello di trasmissione dell’informazione.

Si tratta di soggetti interpretanti, non di macchine programmate per trasmettere input. E, in quanto tali, i soggetti si trovano su un medesimo piano comunicativo, come ben reso dalla linearità della loro posizione nello schema. Non sussistono, tra promotore e ricettore, rapporti di potere tali da ignorare i filtri interpretativi l’uno dell’altro. Non si possono semplicemente bypassare, per usare un termine informatico. Certo, è possibile ottenere prestigio, autorevolezza, specie se si detiene una posizione rispettata all’interno di un gruppo sociale, o se si padroneggiano tecniche comunicative, così come un bravo artigiano sa plasmare i materiali con cui lavora. Ma i divari terminano qui, e non sono certo esponenziali.

Tanto è vero che, nella catena comunicativa, ogni soggetto ricettore può diventare, a sua volta, soggetto promotore di un medesimo argomento, dando luogo a un nuovo processo di informazione, che andrà ad inserirsi in un ciclo teoricamente infinito. E’ questo, sostanzialmente, il modo in cui la società umana, fatta di relazioni sociali, valori, opinioni e peculiarità culturali non contingenti, si protrae nel tempo, garantendo la sua sopravvivenza e, di tanto in tanto, generando cambiamenti e attuando un’evoluzione.

Per questo, per tutto quanto detto sinora, è lampante che nessuno al mondo può forgiarsi del vanto di possedere “la parola assoluta” su qualcosa. Anche il profeta più celebrato, anche l’uomo di stato più votato, anche l’intellettuale più celebrato non detengono la capacità di riprodurre la realtà oggettiva, nei loro processi di informazione. Essi, come tutti, non mettono in scena il fatto in sé, ma si limitano a darne la loro versione. Che essa venga poi considerata autorevole, rispettabile, condivisibile è un altro discorso. Il discorso su cui si basano politica, giornali, scienza e quant’altro. Ma ciò nulla toglie alla soggettività dell’informazione, intesa non certo come un rifiuto postmoderno delle grandi narrazioni filosofiche, o come un’estremizzazione dell’ “anti-anti-relativismo”, per usare le parole dell’antropologo Clifford Geertz, quanto, piuttosto, come il solo modo che gli esseri umani, in quanto soggetti culturali, hanno per esprimersi.

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