Il teatro dello spettatore … palcoscenico del mondo

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI “CARLO BO” URBINO – Laurea specialistica in Editoria Media Giornalismo – Tecniche di relazione – Prof. Giuseppe Ragnetti

“Il teatro dello spettatore … palcoscenico del mondo”

a cura di Adele Frosina


“La poesia non sta solo in chi scrive, ma soprattutto nell’orecchio di chi ascolta”  [R.Benigni]

Tutta la poesia, non solo quella teatrale, è sperimentazione. Ma un libro, un’opera d’arte, non mutano se stessi, al contrario della figura dell’attore teatrale, sempre in contatto col suo pubblico, aperto ad ogni cambiamento e ad intuizioni fino a quel momento probabilmente a lui sconosciute. Bisogna quindi fare una distinzione tra evento teatrale e spettacolo: il primo si svolga in uno spazio/tempo reale, in cui tutti sono parte attiva, sia attori che spettatori. Il secondo è definibile pura “rappresentazione”, in cui l’attore si limita ad essere un preciso esecutore, passivo come il suo pubblico, dell’autore o del regista.

Fatta questa premessa, si potrebbe dire che l’arte scenica in generale è l’unica forma in cui potrebbe (o meglio dovrebbe) avvenire una graduale e lenta mutazione, ovviamente parziale e momentanea, più o meno grande, di tutti i partecipanti al processo.

Il teatro diventa quindi sinonimo di sperimentazione, poesia vivente, l’evadere da un qualcosa di già noto, conosciuto e reale. La presenza del pubblico è essenziale, prescinde dalla quantità, dal numero dei partecipanti, ma non dalla qualità; quest’ultimo aspetto si avvicina a caratteristiche come la disponibilità, la fiducia mentale e fisica, la passione, e perché no, il rischio. Allora teatro come palcoscenico del mondo, dove ognuno dovrebbe recitare la propria parte, togliendo l’ego, il superfluo, per contribuire, anche se in minima parte, alla trasformazione del mondo stesso. Ma non solo. Teatro come la vita, ma non in quanto metafora, bensì come una tecnica di conoscenza che lascia tracce tangibili solo nella memoria.

Si tratta di una pratica artistica collettiva, dove sono essenziali la creatività dei partecipanti oltre alle relazioni che si stabiliscono fra di loro; è una sorta di catena, di circuito, che investe sulla committenza come elaborazione, condivisa, partecipativa, che elabora stimoli e suggerisce spunti di riflessione, spesso sulla società stessa.

A riguardo, sono interessanti le dichiarazioni di Edoardo Sanguineti, Professore di letteratura e autore di teatro, critico, saggista: «Si comunica, a principio, con una ristrettissima cerchia di complici. Poi, quando accade, se accade, l’uditorio si allarga, e l’orizzonte dei destinatari, ma sarebbe più esatto dire dei committenti, si dilata, e diviene un pubblico vero. […] Mancando la committenza, manca anche un’idea del teatro, e questa committenza, se non vuole rimanere una specie di desiderio informe deve articolarsi in istituzioni concrete. È a partire dalla committenza, intesa anche come centro in cui vengono amministrate e regolate le risorse che necessariamente devono sostenere il teatro, che si articola l’operatività di quel fatto comunitario che è appunto il teatro, il quale si alimenta del corpo stesso della società e lo attraversa e ne fluisce fino allo spettatore. […] La poesia non è una cosa morta, ma vive una vita clandestina.»

È a questo punto che si inserisce l’intuizione o la provocazione di Massimo Munaro, regista teatrale. Massimo Munaro e il Teatro del Lemming propongono un nuovo tipo di operazione  drammaturgica: il mito, la fiaba, la tragedia, diventano “attuali” per tutti perché vissuti in presenza, in prima persona, sulla propria pelle e attraverso i propri sensi.

Il suo Teatro dello Spettatore, vuole essere una provocazione nei riguardi della crisi di committenza del teatro contemporaneo italiano (come già aveva presagito Edoardo Sanguineti). Si tratta di fare teatro in maniera del tutto innovativa, mirando a focalizzare l’attenzione sugli spettatori e non sugli attori, dando loro ogni priorità e coinvolgendoli in un processo creativo soprattutto nel momento della realizzazione scenica (durante la quale il soggetto recettore viene invitato ad abbandonare ogni passività per contribuire alla rappresentazione). Così facendo lo spettatore diventa anche committente, portatore attivo di domande, a cui il teatro è chiamato a dare delle risposte come in una sorta di democrazia in cui a prevalere sono  i rapporti diretti.

Il Teatro del Lemming è una compagnia di Rovigo che da alcuni anni, propone spettacoli teatrali che coinvolgono lo spettatore nella drammaturgia mitologica, un viaggio nel teatro e nel mito. Privi di ogni tipo di accessorio o di strumenti più o meno tecnologici, gli spettatori vengono invitati a rivivere su se stessi il mito dell’eroe greco. In Odisseo, ad esempio, i protagonisti divisi in gruppi vengono condotti in diversi luoghi degli scavi archeologici di Ostia; ogni spettatore intraprende il viaggio di Ulisse da Troia ad Itaca incontrando e rivivendo la nostalgia di Penelope, le Sirene, il Ciclope o la maga Circe. Ma non solo, dopo aver vissuto la morte dei soldati troiani tra le proprie braccia ed aver assistito al pianto delle donne, ci si ritrova ad Itaca dove attori e spettatori si rincontrano intorno ad una tavola imbandita. L’esperienza iniziata con il pubblico riunito, identificato con gli Achei, ha poi caratteristiche diverse per ognuno che può essere stato condotto da Hermes o da Atena; nel finale il pubblico arriva ad Itaca, brinda con vino rosso e poi viene congedato. Ripetutamente lo/gli spettatore/i viene messo al posto del personaggio/i principale/i, e può così occupare il posto di Edipo, di Amore o di Psiche, e via discorrendo. Gli attori facilitano solo il viaggio.

Ogni particolare viene pensato per fare incontrare la figura dell’attore con quella dello spettatore, in un dialogo non verbale bensì basato sul linguaggio del corpo che si verifica in uno spazio e in un tempo comuni. Contro la mera rappresentazione, contro una fruizione distaccata, specchio di una temibile passività, l’esperienza sensibile di incontro dei corpi riafferma il teatro come luogo privilegiato in cui la vita accade e non si simula soltanto. Lo spettatore è chiamato personalmente, attraverso i sensi, a rivivere l’esperienza mitica e a far suoi i sentimenti del protagonista. Ed è questo il motivo per cui gli spettacoli presuppongono sempre una partecipazione del pubblico limitata. E’ un teatro del corpo, che non esita a mettere lo spettatore anche in una condizione di vergogna o imbarazzo, mettendo a nudo ogni emotività.

Trenta persone per ricostruire l’identità molteplice e multiforme di Odisseo. Due soltanto per Amore e Psiche, la favola che, attraverso una sorta di iniziazione amorosa, narra la difficoltà della fusione con l’altro. Nell’Edipo una sola persona è introdotta nello spazio teatrale, privato degli effetti personali e reso cieco da una benda nera, è costretto a compiere o a condividere gesti diversi. E nel Dioniso, infine, nove spettatori guidati ciascuno da un partner di scena, si perdono in uno smarrimento fisico, in un crescendo di esperienze sensoriali.

Odisseo del Teatro del Lemming è una lunga e folgorante emozione che assale lo spettatore con la violenza di un’onda solitaria che in una notte calma come il mare d’estate ti scaraventa verso l’abisso tra correnti irresistibili e mostri delle profondità, per poi lasciarti risalire lentamente verso la superficie piatta incredulo e quasi disorientato […].

E’ un teatro che azzera il distacco tra spettatori e spettacolo, che annulla i ruoli per reinventarne altri, per dire al pubblico: “tu sei Ulisse” e chiedergli di viaggiare, carico delle colpe dell’eroe acheo e dei tormenti personali, attraverso cento diverse odissee, quant’è il numero degli spettatori. E’ il teatro da essere, non quello da vedere, in cui lo spettacolo deve significare esperienza dialettica, dinamica, fisica, sensoriale. Un teatro che parla alle emozioni, che chiede libere associazioni al pubblico e al testo […]. Una poetica impegnativa, quella del Lemming, sostenuta da un lavoro tecnico colossale sulle rigorose partiture per i bravissimi attori […] e sullo studio meticoloso dello spazio che qui si moltiplica in tre diversi percorsi simultanei, che troveranno la loro unità solo nella consultazione finale degli spettatori attorno a un banchetto di frutta e vino”. (Estratto rassegna stampa Il Messaggero, 18 agosto 2000, Gian Maria Tosatti)

L’arte si fa quindi interprete del pensiero dell’autore. Facendo un salto nel passato ad esempio, anche Luigi Pirandello si occupò di teatro; drammaturgo, scrittore e poeta italiano, vinse un premio Nobel per la letteratura nel 1934. Pirandello parla di “teatro dello specchio”, perché in esso viene raffigurata la vita vera, quella nuda, amara, senza la maschera dell’ipocrisia e delle convenienze sociali, come se lo spettatore si guardi in uno specchio così come realmente è, e diventi migliore. Definito come uno dei grandi drammaturghi del XX secolo, scriverà moltissime opere, alcune della quali rielaborazioni delle sue stesse novelle, che vengono divise in base alla fase di maturazione dell’autore: in una prima fase si occupa del teatro siciliano, poi di quello umoristico, poi del teatro nel teatro (o metateatro) e infine del teatro dei miti. Nella penultima fase, per Pirandello, il teatro deve parlare anche agli occhi non solo alle orecchie; decide quindi di mettere in atto una tecnica teatrale usata da Shakespeare, “il palcoscenico multiplo”, in cui vi può per esempio essere una casa divisa in cui si vedono varie scene fatte in più stanze contemporaneamente.  Il mondo si trasforma sul palcoscenico. Pirandello inoltre abolisce il concetto della “quarta parete”, cioè la parete trasparente che sta tra attori e pubblico per coinvolgere il suo pubblico che non deve essere più passivo poiché rispecchia la propria vita in quella agita degli attori sulla scena.

E’ nel dramma Ciascuno a suo modo (1924) che si incastrano tre diversi piani prospettici: quello della vita reale, quello della rappresentazione scenica e quello degli spettatori. Mentre in Questa sera si recita a soggetto (1929), affronta il problematico rapporto tra attori e regista, con il coinvolgimento del pubblico.

Nel ’25 Pirandello aveva assistito, in Germania, ad una messinscena del suo Sei personaggi, a cura del regista tedesco di scuola espressionista Max Reinhardt, ed è proprio contro tale tipo di regia che Pirandello si scaglia. La regia tedesca del periodo espressionista prevedeva l’eliminazione di qualsiasi elemento naturalistico, scenografie essenziali ed astratte, ed una recitazione, da parte degli attori, spersonalizzata e straniante. Il testo dell’autore, poi, perdeva valore a vantaggio della libera e soggettiva interpretazione datagli dal regista. Pirandello condivideva solo in parte tali posizioni: il rifiuto per le scenografie sovraccariche ed eccessivamente decorative, così come la libertà della messinscena attuata dal regista.

Agli attori, Pirandello raccomandava di sentire interiormente, immedesimarsi nel personaggio .

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